lunedì 16 gennaio 2017


SPIRAGLI DI BUIO

Universo di Crypt Marauders Cronicles

4.   SIA TACIUTO IL SUO NOME

 

                                                                  "Un sorso d'acqua per un assetato, Effendi. E già che ci sei, passami una di quelle gualdrappe che la notte mi si gelano i coglioni!" "Per me possono pure cascarti. Tiamat mi paga per la tua testa, non per le tue dubbie virtù" L'unica pecca della magistrale caccia del Veltro era quella di non aver imbavagliato Mantera. Il fuorilegge possedeva un naturale talento oratorio, un autentico trapano di logorrea. Il fatto è che non si limitava a cantare, inveire o sproloquiare. A causa sua, Veltro aveva corso il rischio di ingaggiare un alterco con quattro vangafosse incrociati a sud del Passo Scintillante. "Aiutatemi, germani! Sono un ladro come voi, caduto nell'imboscata di questo diabolista rinnegato!" aveva implorato il lestofante dentro la sua gabbia. Il clamore della mattanza di Tananai si sarebbe di certo divulgato ai quattro venti, ma era troppo presto perché tutti sapessero della sua scomunica. In nome del Patto di Torcia, le teste calde e le zucche vuote potevano commettere qualche avventatezza ... Per fortuna gli errabondi avevano letto la schietta efferatezza nei lineamenti del Veltro, e preferito non immischiarsi. "Figlio di mille ghoul, testicolo putrefatto, oca morta! Nemmeno immagini in che pesca sei andato a cacciarti ..." Ora Mantera declinava il suo mantra di minacce. Veltro si era attendato in una pietraia frastagliata da ampi canaloni, alle falde di un'amba incrostata di ruderi simili a teschi fossilizzati. Era la seconda notte nel deserto. Il viaggio procedeva a rilento. Dopo l'incidente sfiorato coi tombaroli una subdola paranoia aveva infettato il giudizio del Veltro che, a costo di trasgredire ai dettami di Skrotos e del Coma'ante, aveva leggermente deviato dal tracciato canonico. Giusto un rivolo, quel tanto che bastava per non perdere d'occhio le Piste e contemporaneamente non orbitare attenzioni sgradite. "Privarmi dei miei servi è stato il tuo ultimo errore" rincarò la dose Mantera. Malgrado la persistente molestia, in fondo il Veltro era contento di non avergli mozzato la lingua. Le sue litanie rendevano le notti dell'Ordog meno lugubri e spettrali. "Non mi sembravano starti così a cuore mentre te la svignavi" lo assecondò Veltro "Horla era stupido come un muggito! Io parlavo di Racne ... che gran spreco di fregna! Quella troia sciroccata sapeva fare più giochi con un glande che un illusionista con un mazzo di carte! E hai visto come menava ..." "E' per questo che l'hai rubata a Tiamat, insieme alla grana?" "Tiamat è un puttana manipolatrice, una sadica! Non hai idea a che genere di depravazioni sottoponeva Racne. Se ti fidi di lei sei già morto! Quando mi avrai consegnato, ti farà scuoiare come un ariete nel retro del Berlicche Bislacco!" "In realtà, ci ha già provato ..." mormorò Veltro affilando la spada. Mantera mutò ancora tono, come un serpente cambia la pelle. "Sai che nell'ultima trattativa le ho scucito un bel bottino, no? Quel gruzzolo lo tenevo da parte per la mia fuga a occidente. Ma adesso è tuo! Sei un cacciatore di taglie, un compenso per una vita. La mia. A  te cosa cambia? E’ facile, sta in un nascondiglio ad un giorno da qui. Poi, chi s'è visto s'è visto!" Veltro ripose Sentenza e si grattò il mento spinato da tre giorni di barba. Gli occhi riverberavano pensosi allo scoppiettio della brace. "Sai, è la prima volta che un ricercato mi alletta con un'offerta del genere!  Ventimila lune per un polpo già nella rete, o una deviazione per una meta ignota, verso un tesoro che forse non esiste, tra le mille insidie di un deserto stregato ... almeno mi concedi la notte per sciogliere il dilemma?" "Lurido caprone, verme di catacomba! Prima o poi riuscirò a liberarmi da questa stia per pavoni, e allora piangerei l'istante in cui hai messo piede in Thanatolia!" Veltro si abbassò la tesa del cappellaccio, puntellandosi sulla scomoda stuoia. "Il problema è che i tuoi poi stanno finendo, Mantera"  

 

                                                            Raggiornava, sulle dune. Un albore grigiospento e pulviscolare come l'universo di sabbie obliate dagli dei. La solitudine immutabile del panorama rivaleggiava in piattume con la diafana radiazione del mattino. Era come se le luci del sole, della luna e degli altri corpi celesti si fossero coalizzate in un amalgama corrusco simile a una perpetua alba crepuscolare. Veltro, indurito da anni di guerre e caccie spietate, non era un tipo proclive al nervosismo né uno facilmente impressionabile. Il suo sangue era refrattario agli sbalzi di temperatura. Cionondimeno quel giorno si sentiva oppresso fin nei precordi da assurde premonizioni, forse suggellate da sogni vaghi di cui rammentava trame nebulose. Digiuno, si era messo in marcia con un ingiustificabile e snervante accoramento. A ogni respiro nutriva la surreale sensazione che l'aere o la terra si sarebbero squarciati per figliare qualcosa di abominevole in agguato al di là degli spazi visibili. Era un presentimento atroce, che lo rendeva particolarmente insofferente ai vaniloqui del prigioniero. Un bubbolio all'orizzonte precorse un'insolita raffica di hadramaut. "Aria di tempesta" commentò sardonico Mantera. Veltro si strinse la cappa sulle spalle, infreddolito da un gelo più psichico che fisico. Le insorgenze antidiluviane del Tormenghast, e l'Erebo di caverne occultate nelle loro viscere, incombevano paurosamente come ciclopi saprofagi. Qualcuno spense il lume a ponente, e la luce diurna si fece ancora più avara. Il ghibli thanatolico ora portava un pungente fetore di tomba, che impastava il palato di un sapore ferrigno e nauseante. "Le polveri degli Antichi!" si sganasciò Mantera "Che retrogusto hanno, Penumbro?" L'altopiano, di punto in bianco, risonò di una salva di tuoni raccapriccianti analoghi ai borborigmi di un Behemoth ingordo. Il turbine si sollevò dal Deserto delle Ceneri, librandosi in una torre babelica come un jinn sfuggito dal corindone. In un serrar di palpebra prolassò in una rugginosa e incommensurabile massicciata di sabbia, tefriti e fuliggine, un fronte di forze immiti che avanzava e digeriva a velocità sconcertanti il pianoro di carbonio. Il sole sullo sfondo era un'orbita livida di sangue disseccato. Veltro realizzò che senza un immediato riparo erano bell'e spacciati. Lungo le Piste i pionieri avevano disposto rifugi d'emergenza per calamità simili, ma considerato il bordo d'avanzamento della tempesta era una chimera auspicare di raggiungerli per tempo. Non rimaneva che spingersi ancora più all'interno, nella speranza di incappare in ridosso anfrattuoso dove imbucarsi e aspettare che gli elementi sfuriassero la loro collera primordiale. Almeno le ubbie irrazionali acquistavano una dimensione pratica. Veltro speronò l'adipe papilloso del dromwar, lanciandolo in accelerazione su un'erta accidentata. I mozzi del rimorchio gemevano sui ciottoli aguzzi, incrinandosi vertiginosamente su crepacci improvvisi. I tiranti si allungavano come tendini prossimi al distacco. Nella gabbia beccheggiante Mantera sembrava invasato. "Andiamo soli, da bravi fessi, giù nelle cripte ..." stonava a squarciagola, circonfuso dall'ululato d'ozono dell'apocalisse in arrivo. Un manrovescio di hadramaut mefitico per un soffio non scippò la cappa di Veltro, che infieriva sulla cotenna zigrinata del povero sauro schiumante. L'impervio ciglione sgomitò verso una facciata crivellata di trafori e rientranze. Il buscherio dei tuoni li tallonava come l'avanguardia di una coorte di diavoli. Al volgere del crinale il dromwar stirò le zampe. Un rantolo penoso, simile a un raglio subacqueo, e l'ammasso grinzoso si accartocciò nella sassaia lasciandoli a piedi. Veltro assaporò il travaso di bile. Mantera rideva a crepapelle, la faccia incastonata tra le sbarre come un'emorroide tra due chiappe: "Tiamat deve avertela tirata, socio! Due piccioni con nessuna fava! Uh Uh Uh!" L'ira obnubilò il Veltro. Con un gesto fulmineo inserì il braccio nella gabbia, sorprendendo lo stesso ladro che provò vanamente ad azzannarglielo, ed iniziò ad acciaccargli il grugno contro le inferriate. Cessò solo quando ebbe sentito rompersi abbastanza componenti, e l'incendio verboso di Mantera fu spento. Poi Veltro aprì la gabbia, scaricò l'ingombro sulla ghiaia e lo riempì di altri calci nel culo e sulle vertebre. Lo sfogo gli dava una viscerale soddisfazione. Veltro avrebbe continuato fino a farne un vegetale, se la tempesta non fosse ormai a pochi tiri d'arco. Dunque, bestemmiando inusitatamente, Veltro attorniò i polpacci dell'assassino con il nodo scorsoio di una fune e trainò la sua taglia ai calanchi sforacchiati. Il turbine si infranse sulle pendici dei massicci con l'impeto di un cavallone contro una scogliera. Veltro si infilò nell'arco curiosamente circolare della prima fenditura, e pochi istanti dopo un geyser di ceneri veloci come proiettili e strali di fossili polverizzati deflagrò dall'imboccatura. Tritume di cripta e crematorio intasò i bronchi di Veltro, asfissiandolo come il sudario mefitico di un nachzerher. Tossì fino a nebulizzare sangue, e sciupò mezza borraccia per rintuzzare l'asma. Fuori, il vento mugghiava come un minotauro deluso dal mancato sacrificio. Veltro appurò che Mantera respirasse ancora. Un russare costante, arrochito dal setto maciullato, glielo confermò. Era l'unica nota lieta dello spartito. Si trovavano nell'occhio di una bufera thanatolica, a due giorni di cavallo dal Guado ma senza cavallo, nel seno di una spelonca buia e puzzolente. La sua logica, di nuovo padrona, gli ingiunse di perlustrare l'ambiente circostante. Frugata la sacca, zolfone e  candelotto sfrigolarono nel tunnel una luce apatica. Veltro ebbe nuovamente l'impressione della sinistra artificialità della volta arcuata, come se a scavarla nell'epa del monte non fosse stata la geologia ma un'ignota coscienza anteriore. La ruggine ossea della tempesta non aveva coperto del tutto un rebus di orme bizzarre e recenti impresse nel suolo argilloso. Veltro avviluppò il ladro nella fune, e pistola alla mano si insinuò nel budello. Il tanfo di putrido sembrava acuirsi. Un sentore più umido, più di carcassa che di mummia stagionata. Forse era la tana di una moffetta o di una manticora. oppure era l'inquilino della cava la scaturigine di quella pestilenza ... D'un tratto il passaggio si ampliò in uno spazioso ridotto, e la brace della teda manifestò l'inesplicabile. In fondo al cul-de-sac sorgeva una porta. Non una porta di legno borchiato, o di grate ossidate, ma la lastra discoidale di uno sconosciuto metallo lucente, scuro come ossidiana. Di certo non erano state le alchimie naturali a forgiarla ... Veltro avanzò cautamente. Accanto al portale, nella scabra roccia paleozoica, risaltava un rombo del medesimo metallo, effigiato da un alveare di paleogrammi irriducibili ad alcun alfabeto familiare. Veltro avvicinò la mano alla cornice ed i glifi si animarono di un ambrato bagliore turchino. Ritirandola, baluginavano fino ad annerirsi come astri defunti. Sedotto dalla scoperta, Veltro non badò all'osceno fetore, adesso quasi tangibile, né all'ombra immonda che si distaccò dalle altre che popolavano la volta. I collaudati automatismi del suo mesencefalo scattarono una frazione in ritardo, il tempo di cogliere una sagoma clownescamente bestiale stagliarsi su di lui. Una mazzata alla tempia lo disarticolò dalla realtà.       

                                                                  eoni dopo, Veltro riemerse dal nero per trovarsi nel marrone. Era nudo, intontito e ammanettato ad una superficie pinacoide fredda come vetro. Gli occhi bruciavano come se galleggiassero nella calce viva. Il senso di disorientamento era sopraffacente. Anche Mantera, inchiodato al tavolo attiguo come una rana da laboratorio, non aveva una bella cera. Dal profilo tumefatto gli saliva un sibilo apoplettico, e la pelle solcata da antiche feritacce appariva clorotica alla radiosità verdebionda dei lampadari scevri di fiamme. Un odore di marcescenza e miasmi acidi neutralizzava la volontà, e Veltro dovette sudare freddo per instaurare una parvenza di autocontrollo. L'ambiente che mise a fuoco era alieno quanto blasfemo. Una camera dal soffitto basso e tortile, sostenuto da colonne dello stesso metallo lustro del portale, che si aprivano su anditi tenebrosi. Oltre ai loro contò sei altari vuoti, più simili a banchi mortuari in realtà, puntati come falangi verso una teoria di sarcofagi di un cristallo patinato simile a tormalina. Sembravano tutti sgombri tranne uno, forse, paludato dalla grama penombra. Grappoli di cavi bizzarri e gommosi dipartivano dai cofani ramati e si inserivano nel lastricato metallico delle pareti. Codeste grondavano stigmi dalle geometrie allucinanti, incomparabili a qualsiasi cifra estetica e su cui era salubre non soffermarsi. La palma del macabro però andava ad un mobile d'angolo, simile ad un osceno trumeau di lacerti tassidermici e scheletraglia saldata a una stravagante ferramenta di placche e chiavarde. L’aria putibonda dell'antro era pervasa da un ronzio malefico e angoscioso, impossibile da localizzare. "Dove cazzo siamo?" blaterò raucamente Mantera. Domanda scontata, ma a cui il Veltro non osò rispondere. Le ipotesi erano così atroci da far rimpiangere il deliquio del coma. "Ehi, li senti anche tu?" "Già" Passi sovrapposti in arrivo dal buio, che l'udito assoluto del Veltro attribuì a due distinti proprietari. Uno lieve e regolare, l'altro malfermo e strascicato. "Mantera, se hai mai avuto una coscienza ti suggerisco di pentirti ora" disse Veltro lapidario "Bah" Mantera sputò sulla colata di porfido del pavimento "Il mio unico rimorso è non poterti accoppare di persona" Il cinismo del ladro anticipò la comparsa dei loro sequestratori. Veltro torse il collo per squadrarli meglio. Un incappucciato esile e misterioso sostò all'ombra dei pilastri. Da essa si scollò una larva d'uomo, di gran lunga più malridotta dei prigionieri inchiodati ai tavoli. Uno sbricio pianeta intriso di umori inqualificabili incellofanava una corporatura magra al di là del concetto di consunzione. C'era solo una pellicola di pelle color pergamena sul suo teschio angoloso, deformato da una smorfia di depravato compiacimento. Un arcano artefatto di luci ondivaghe come fuochi fatui gli premeva il torace macilento, agganciato a una collana di denti umani. Il fattucchiere claudicò fino al cuore della camera, e puntò l'artefatto verso l'orripilante collage di organi e metalli. Una scarica di energia bluastra guizzò come una lingua biforcuta da un piccolo pomello alla sua sommità, e gli aborti di gambe che Veltro aveva scambiato per appoggi si mossero con lo scricchiolio di articolazioni anchilosate. Gli stipetti e i portellini si schiusero docilmente ad un comando del mago, rivelando un foderame di legamenti necrotici e costole disincarnate dove alloggiavano spaventosi attrezzi cerusici. "La vera Scienza" mormorò il negromante. Le pupille nere come carboni erano accese di un’ esaltazione messianica.  "Ehi, paesano, ma io ti conosco!" Gli occhi del maniaco saltarono alle spoglie nude di Mantera. "Sei Vool'mag lo stregone della masnada di Nan Drol! Ora ti riconosco! Perdona la franchezza, ma ho visto spaventapasseri più in forma di te!" Vool'mag impegnò le grinfie ossute con un bisturi dal filo micidiale e un corto alambicco, e zoppicò verso gli altari. La sua aura raggelante sembrava estinguere il calore della carne. Il cuore del Veltro si incagliò . "Non puoi averlo scordato, vi ho fatto da guida al Famedio Franto lo scorso alcione. Siamo fratelli in Torcia, vecchio mio!" lo impetrò Mantera, il tono spezzato "Io non c'entro! Scioglimi dalle manette e ti aiuto a scuoiare questo tradi ... aaargh" La lama slabbrò l'avambraccio del ladro, ed il sangue filtrò nella provetta tra le urla rabbiose di Mantera. "io non sono più Vool'mag, pezzo di carne, e tu non sei altro che una cavia" chiarì il negromante. La sua voce sepolcrale racchiudeva un intero mondo di pagana perversione. Vool'mag manipolò la reliquia lampeggiante e l'empio carrello di carcame e ferraglia lo raggiunse ciondolando. Veltro adocchiò la seconda figura venire allo scoperto, e scivolare silenziosamente accanto al suo altare. Era una donna, o almeno ne aveva le credenziali. A  nord dei lombi portava un saio grigio che le fasciava i connotati, tagliato all'altezza del pube. Malgrado le circostanze Veltro non poté esimersi dall'apprezzare la linea morbida delle cosce color caffè. La strana monaca si rifornì dai turpi vassoi e meccanicamente prese ad emulare i gesti dello stregone. Veltro non oppose resistenza, a differenza di Mantera che si contorceva come un luccio sbuzzato. "Non lo sono più da quando il Necrolorum, il trattato di chirurgia infernale, mi ha guidato in questo laboratorio" continuò Vool'mag, scambiando il campione di sangue con dei vetrini e un lungo uncino "Era un laboratorio dei Coeterni, lo immaginate? Ce ne sono altri, nelle gallerie del Tormenghast. Li costruirono prima che la Regina - sia Taciuto il suo Nome - fosse bandita dalla sfera materiale, quando l'umanità era ancora fango sotto la notte illune" Veltro seguì i polpastrelli della sconosciuta corrergli lungo il corpo, un tocco quasi premuroso, mentre asportava campioni di saliva, di muco, di cerume. "Per i Coeterni la vita e la morte erano giusto parametri, variabili di equazioni che oggi surclasserebbero la più ardita blasfemia! Allora i negromanti non erano avventurieri da strapazzo, ma teurghi dai poteri ultraterreni, lo strumento di Entità più antiche del tempo e dello spazio ..." Le quattro ossa di Vool'mag tremavano incontrollabilmente, intossicate dal tetano di scibili oltremondani "Io vi guardo e vedo solo insulsa putrefazione. Cos'è la vita come viene intesa, se non una schiavitù del caduco, una prosopopea della materia? I vostri secreti serviranno per uno scopo più nobile, il rituale del Nganga, la pozione che donerà la non-morte alla vostra carne. Così è stato per Nan Drol e i suoi tirapiedi, le mie prime cavie, e per le altre che la provvidenza ha menato sin qui ..." Veltro scrutò con maggior studio la suora. C'era qualcosa di misteriosamente familiare nelle sue fattezze ... "Vuoi farmi un dono, avanzo di cripta? Passami uno di quei castraporci e curerò il tuo problema" ringhiò Mantera "Ehi, allontana quel cavatappi dal mio tafanario! Ma cosa... non pensarci neanche, invertito del cazzo!" "Ogni fluido va spremuto, lo dice il Necrolorum. Farà più male se ti dibatti ..."  Le dita affusolate dell'assistente cinsero senza preavviso il mollusco tra le gambe del Veltro. Almeno la giustizia non è del tutto morta in quest’obitorio, pensò agramente. "Lascia perdere, zucchero" le consigliò Veltro "Non è proprio aria". La concavità avvolgente della ragazza non si diede per vinta e, seppur con la morte nel cuore, qualcosa nei bassifondi del Veltro cominciò a palpitare. "Non sei tenuta a farlo" le sussurrò sforzandosi di non assecondare la ritmica della mano. Nemmeno le strilla suine di Mantera riuscivano a smorzarlo. Veltro si focalizzò sul volto della giovane. Il cappuccio si era scostato, e una lacrima le rigava l'onda modellata dello zigomo, luccicando sull'ambone del neo a coccinella che le decorava la gota. "Sei tu!" mugolò il Veltro "Al Guado! Avevo intagliato quella pietra.. per ..te..." Veltro provò un'umiliazione avvilente mentre la zingara ultimava l'ingrato compito con asettica automaticità, e deponeva la fiala in un compartimento del nefando vitruviano. Era tutto così assurdo ... Anche Vool'Mag aveva concluso i suoi prelievi, per buona pace di Mantera, e ristava nelle vesti inzaccherate al centro del laboratorio. L’assistente chinò il capo e lo imitò con oppiata inebetudine. Mantera latrò l'ennesima, vacua minaccia.  "Sursum corda, miei catecumeni! Tra poco verrete mondati dalla mortificazione della vita, ed otterrete il privilegio immortale di servire la Regina, sia Taciuto il suo Nome!" Veltro sentì la voragine lasciata dalla speranza affossargli l'animo. Il necromante attivò le energie corruttive del suo collare e un alone di fuoco spettrale azzurrò uno dei sarcofagi di cristallo. Il ronzio onnipresente sembrò alzarsi di un'ottava. La schiena del Veltro si orripilò. Con un fischiante getto nebbioso una cosa uscì dal cubicolo, e quando la cortina si fu dissipata i due prigionieri non trattennero un acuto di insopprimibile terrore. "il Caos"  disse Vool'Mag "il vostro futuro"  

 

mercoledì 11 gennaio 2017



SPIRAGLI DI BUIO


Universo di Crypt Marauders Chronicles

3.   CACCIATORI E PREDE

 

                                                                 Le Piste Calpeste serpeggiavano sotto un cielo di rame tra panorami di stregata desolazione. Recavano le impronte di migliaia di calzari, di zoccoli e il solco dei rimorchi di incalcolabili spedizioni. Le sabbie ciottolose dell'Ordog, anticamera al Deserto del Ceneri, arrugginivano sotto la muta vedetta di ciclopici menhir ed i moloc di megalitici ruderi diroccati dai millenni. Il fascino scabro delle solitudini desertiche si coniugava a un’impalpabile aura di alienità sovrannaturale, il dimenticatoio ideale per chi intende nascondersi o sparire per sempre dall'orbe civile. Grauser aveva fissato per il Veltro un abboccamento con una spia di Tiamat, senza la quale la caccia sarebbe risultata a dir poco improba. Le zampe artigliate del dromwar tennero la caldeggiata via maestra fino al tramonto, quando quel polveroso monumento all'effimero fu popolato da una mandria di tenebre antracite. Pareva che a pascerle fosse l'hadramaut, il richiamo dei morti, l'arido vento dell'entroterra thanatolico. Sibilava tra i promontori di sabbia e macerie col suo gelo d'ossario, scolpendo le dune come un'entità senziente. Il sole annegò a vista d'occhio oltre la dorsale del bassopiano, e il fuoco di un vicino bivacco riscaldò la mente già suggestionata del viaggiatore. Il quadrupede draconico familiarizzò con un suo consimile, allungando il collo grinzoso, nel ridotto di un marabutto in rovina che i tombaroli usavano come xenodochio. Una figura solinga si riparava tra una bica di detriti e una colonna franta, ingarbugliata in uno strato di vesti frugali. "Appena in tempo!" commentò senza alcun stupore alla comparsa del Veltro "Non è saggio marciare tra le ombre, se sei un vivente..." Skrotos era un ramingo poco loquace, dall'indole pellegrina, legato da un antico e imprecisato debito all'organizzazione di Aurotene. Acuto e smaliziato, conosceva le asperità dell'Ordog come un custode le tombe di un cimitero. Il duca ideale per il Veltro. Cavalcarono ininterrottamente per due giorni fino al Passo delle Ossa Scintillanti. I mattini erano canicolari e siccitosi come le uadi pietrificate che talvolta sottolineavano le piste, le sere un freddo sussurro di misteri dimenticati ma non per questo estinti. Man mano che si addentravano in Thanatolia, le regole astronomiche davano l'idea di ammutinarsi. Il sole collassava a velocità irragionevoli, come per effetto di un numero di prestigio, e i firmamenti erano arcate di uno zodiaco illogico e sconosciuto che sabotava l'orientamento. La terza notte si accamparono in un boschetto di saguari alle pendici del basso Tormenghast. La brace del bivacco a queste longitudini sembrava scaldare poco e illuminare ancor meno. Una cosa ululava nell'oscurità, un urlo lamentoso, agghiacciante, di un bambino sperduto. "Uno sciacallo?" domandò il Veltro, prevedendo un'altra veglia insonne. Skrotos si sbottonò: "Improbabile. Forse uno scorpione mannaro o una mummia derubata. Magari un abominio ancora peggiore ..." Veltro adocchiò i pinnacoli dirupati che davano il nome al Passo poco lontano. Splendevano di un'arcana iridescenza cerulea, che inspiegabilmente non rischiarava la notte, simili a torri falcate o alle zampe di un ragno ribaltato. "Solo uno squilibrato si avventurerebbe tra quelle solitudini" borbottò Veltro tra se. Skrotos intercettò il suo pensiero: "Dove tu vedi un insensato abbandono altri hanno visto e vedranno la vanagloria dell'argento, del potere, della sapienza e, perché no!, della morte fine a se stessa. Forse non la più nobile delle cause, ma la più naturale. In fondo anche tu sei qui per qualcosa ..."  "Io sono qui per lavoro" L'informatore approvò. "Io il mio l'ho finito. Domani supera il Passo e percorri le Piste tenendo i monti alle spalle. Tananai ti accoglierà a fauci aperte ...  Non vedrai mai un covo di malaffare peggiore di quello. E' lì che oggi si annidano Mantera e la sua feccia di esiliati, agli antipodi dell'impero occulto di Tiamat!" "Tu non mi accompagni?" "No, il mio debito termina qui. E poi, se devo crepare, non mi va di avere Mantera per boia. Quell'uomo è uno scarafaggio col cervello di un demonio, matto come un cavallo" Per nulla rassicurato, Veltro svolse il primo quarto di sentinella. L'ululato cresceva e sfiatava. Dove, arduo decifrarlo. Qualcosa di indeterminabile e sinuoso tramestò tra le xerofite, ma non osò venire alla luce, forse intimidito dall'acciaio o dai feticci d'antimonio che Skrotos apprestava attorno al bivacco per scongiurare il malocchio. Nell'ora del lupo, falò ignoti barbagliarono dai picchi preistorici, come in risposta a invisibili segnali celesti All'alba Veltro si rialzò più stanco di quando si era coricato. Skrotos e il suo dromwar se l'erano svignata. Il beduino aveva disposto la partenza nell'illusione che l'orecchio onnisciente di Veltro ne fosse all'oscuro, ma lui lo aveva assecondato volentieri. Detestava gli addii. Skrotos gli aveva lasciato un'agra colazione e alcune delle sculturine apotropaiche. Veltro consumò lo spuntino con mani intirizzite, assistendo all'arrancare dei frusti raggi del sole dai cocuzzoli preumani. La riacquistata solitudine lo metteva stranamente di buon umore. Era così che amava lavorare, quando la preda si profilava all'orizzonte. 

 

                                                                                         Il deserto imbruniva come una padella bruciacchiata, quando Veltro avvistò i fuochi di Tananai. Era un caotico accampamento privo di mura, soverchiato da un'acropoli cadente di sfingi decapitate e mozziconi di propilei sconsacrati, saccheggiati da anni di ogni ricchezza. Il tenore degli  edifici, affastellati senza alcun criterio urbanistico, oscillava tra baracche di assi rozzamente squadrate a veri e propri padiglioni sorretti da travi infisse nel suolo sabbioso. Veltro parcheggiò il dromwar in un enorme recinto suddiviso per specie - gli equini e i camelidi non soffrivano i sauri -, gestito da due gemelli dal collo taurino che indicarono al Veltro le migliori armerie e il saloon. Le prime erano in realtà spacci di ogni classe di merci per avventurieri, dai sacchetti di polvere nera agli amuleti negromantici, passando per le immancabili vanghe da necropoli. Per i terreni sassosi gli esperti suggerivano quelle a lama trapezoidale, col manico in ferro. Veltro finse di mercanteggiare per un kit di scalpelli da cripta e una lanterna schermata, giusto per sondare i paraggi senza alzare troppo il profilo. Le strade sterrate erano un crocevia di ceffi discretamente spaventevoli, marmagliume più aduso al delitto che alla legalità, combinato in maniere tali da dissuadere possibili molestie.  Veltro notò la presenza di una Shurta dalle brigantine di cuoio scadente e armata di falcioni e zagaglie, quasi indistinguibile dalla canaglia che infestava il sobborgo. Non era una guardia cittadina bensì una sbirraglia di mercenari, fedele solo agli interessi dei commercianti che sganciavano la mercede in cambio di protezione. Se le cose fossero filate lisce, Veltro non credeva avrebbe incontrato problemi sul quel fronte. Il barbiere chirurgo si spidocchiava la zazzera fuori dalla tenda vuota, e i barattieri starnazzavano in una babele di idiomi per finalizzare gli ultimi imbrogli della giornata. Restava il saloon, archetipo di ogni losca centralina di informazioni. Dagli schiamazzi che rimbalzavano dalla bettola si sarebbe detto che le meretrici la stessero regalando insieme a un'ughia di canapa. Le narici del Veltro furono pugnalate da un'orgia di effluvi che combinava l'acredine di sbornie rigurgitate al dolciastro delle spezie e del fumo. L'interno era vasto e distribuito su un piano, il pavimento cosparso di trucioli. Un enorme focolare e una mescita di porcherie, insieme a filari di panche grezze e sgabelli scrausi, corredavano il quadro. Gli avventori erano troppo presi dal gioco, dalla baldoria o dalle sguaiate cameriere per curarsi dell'ennesimo, polveroso vagabondo. Veltro soppesò le obbligatorie consumazioni. Un cuciniere grondante sudore arrostiva alla brace schidioni di costole carbonizzate. Veltro non aveva visto topi né polli razzolare nei vicoli di Tananai. Nel dubbio, optò per i beveraggi. L'ostessa, una virago cadente dai baffi più folti dei suoi, gli grugnì: "Carichi o scarichi?" D’acchito restò interdetto. Poi colse l'ammiccare lascivo di una serva popputa di ritorno dalla corvè, e arguì. Ordinò un boccale di sidro a una tariffa iniqua, e si unì ad un tavolo di mercanti alticci equidistante dall'uscio e dalla vetriata senza scuri che dava in strada. Da lì Veltro poteva tenere d'occhio la situazione.

                                                   Le ore passavano sulla cipolla, assottigliando la speranza di intercettare il suo bersaglio. Tananai non andava mai a letto, e come una sorgente inquinata riforniva il saloon di continua marogna. La pasta dei clienti era pittoresca quanto infida. Un viavai di cercatori e tombaroli d'ogni schiatta, dalle biffe ora malsoddisfatte ora esaltate. bucanieri paludati nelle pelli maleodoranti delle fiere predate. Nomadi in sosta sulla via di rotte segrete. Veltro rilevò nella calca sempre più odiosa le vesti neropurpuree e trapunte di rune dei sussiegosi negromanti, una casta comprensibilmente rispettata in Tanatholia. Veltro non credeva nella veggenza o nella stregoneria, ma non era così ottuso da sottovalutarla. Da quando era sbarcato a Port Tijaratur Veltro aveva captato impressioni e percezioni estranee al senso comune, e sperimentato situazioni che difficilmente si inzuccavano con la logica. Le sue riflessioni furono distratte dal passaggio di una sorta di fachiro, pitturato di ocra bianca a emulazione di uno scheletro, con una figura incappucciata e recalcitrante alla catena. Molti avvinazzati accolsero la sua comparsa con ovazioni d'incoraggiamento. Il fachiro raggiunse il centro della sala, e agganciò la catena ad un'anella d'acciaio conficcata nel sabbione. Il brusio scemò. Ottenuto il suo pubblico, il guitto svelò con consumata teatralità la cosa sotto la coltre. Veltro sussultò, inorridito: quella era la morte incarnata. Un umanoide macilento e orripilante, dalla pelle cianotica e ulcerosa, prese ad artigliare furiosamente l'aria con le grinfie sudicie di terra, contraccambiato da risa e lazzi triviali. Le mascelle erano imbullonate in una musiera di sbarre retate, in modo che l'obbrobrio non potesse mordere, dalle quali fiottava una bava necrotica e un ringhio disumano. Gli occhi apatici, da squalo, riflettevano l'abisso nero del catafalco. Se c'era una cosa più morta di questa, Veltro stentava a immaginarsela. Eppure se ne stava là, in piedi, a dimenarsi e a digrignare il muso in scimmie piene d'odio demente. Una cameriera porse al fachiro un sitar di zucca e tek, e l'aedo cominciò a tentarne le numerose corde. Il bordone era lugubre, vibrante, incredibilmente suggestivo. L'essere incatenato si ammansì, tastando il vuoto quasi volesse catturare quelle note surreali e sfarfallanti. La sua ghigna bestiale si diluì nell'espressione di un demonio sotto sedativi, e con orribile voluttuosità il non-morto improvvisò una danza oscillante che mandò ai matti il becero auditorio. Ipnotizzato da quel vilipendio alla natura, per poco il Veltro non si perse l'ingresso di tre nuovi clienti: una coppia a braccetto, tallonata da una scorta non indifferente. Le tempie del Veltro presero a pulsare come tamburi di battaglia: un predatore ne fiutava d'istinto un altro. Mantera incedeva con un passo spavaldo e protervo, indizio di una sicumera basata sulla paura. Il cranio notevole era sgorbiato da una tonsura crestuta, che in sintonia al naso massacrato e alla bocca orlata di cicatrici consolidavano la sua aura criminale. Molti si scansarono dal suo cammino, e chi non lo faceva veniva estirpato con malgarbo dal gigantesco guerriero al seguito. Bastò una sua occhiata per convincere gli occupanti delle prime file a riconsiderare la loro sistemazione. Mantera si svaccò su una panca, accogliendo in grembo le forme ginniche e invitanti della compagna, inguainata in un corsetto a scacchi e un licenzioso shyntian lacerato in più punti. "Horla, c'è il tuo numero preferito!" sogghignò Mantera al colosso, che si accasciò su una sedia sbattendo sul tavolo lo spadone ricurvo e l'enorme giustapposto. Il barbaro indossava una pelliccia troppo ricca per essersela comprata. Doveva trattarsi del voltagabbana Yziaken, e lei invece era Racne, la puttana evasa dall'harem di Tiamat. Un peculiare disegno le adombrava il viso pallido, la stilizzazione di una tarantola che pareva sbucarle dal padiglione auricolare tatuato a ragnatela. Tutto tornava.  Veltro approfittò del bailamme per infilarsi il tirapugni chiodato e levare la sicura alla Knaak. Sentenza gli batteva la coscia nel fodero. Intanto Mantera riceveva il primo giro di boccali, ricompensando la cameriera sculettante con una manata nel deretano. Malgrado l'apparente celiare, il Veltro percepiva la tensione scorrere sotto i connotati del ladro come una vena vulcanica. Gli occhi di Mantera, di un blu torbido, scandagliavano vigili e irrequieti i dintorni, e nell'istante in cui incrociò i suoi Veltro temette irrazionalmente di essere stato scoperto. Racne finse una scenata di gelosia per il comportamento dell'amante, e ridendo oscenamente si spalmò la schiuma dell'idromele nella giunzione dei seni. Mantera vi infilò lubricamente la lingua, incurante di ogni pudore. Veltro valutò se ucciderli subito o aspettare che fossero usciti. In entrambi i casi, catturare vivo quel pezzo di merda sarebbe stata un'impresa degna della sua fama di cacciatore di taglie.

                                                                     Gli eventi decisero al suo posto. Tutti erano assorti nell'ignobile spettacolo dell'incantatore di ghoul,  e non si accorsero del drappello di cavalieri che a briglia sciolta risalivano il centro di Tananai. Dalla finestra il Veltro li osservò arrestarsi davanti al saloon, e man mano che volavano dalle selle sentì un groppo acido ostruirgli la gola. Guai in arrivo, ma non per forza. Un diversivo poteva tornargli utile, specie in frangenti come questo. Veltro si alzò e guadagnò a spallate alcuni metri verso Mantera, prima che sei incappucciati irrompessero dai battenti a valve. Sulle armature leggere vestivano incamiciate bianche contrassegnate da un tomoe scarlatto, e i cappucci erano buffamente conici, con due fori rozzi per gli occhi. Meno goliardiche erano le torce nere e spente che maneggiavano come lunghi randelli. Il fachiro stoppò la sua nenia. "Gli spiriti dei caduti possono raggiungerti ovunque, Mantera" tuonò pomposamente la testa del gruppo "Sei pronto ad affrontare il Giudizio?" Veltro imprecò sottovoce. Ci mancava solo questa. Mantera degnò la minacciosa truppaglia di un'occhiata di sufficienza, ma Veltro registrò che coperto da Racne aveva estratto qualcosa dallo stivale. "Quanta retorica, Okkultis.  Non è colpa mia se tuo fratello aveva un pessimo senso dell'orientamento!" Gli avventori ancora sobri se la squagliarono alla chetichella dietro le fantasmatiche figure. "Lo hai abbandonato nelle Desolazioni senz'armi né acqua, vile serpente. E' per questo che sei scomunicato. Avete udito tutti? Per questo ladro da ora è decaduto il Patto di Torcia! Le nostre torce nere renderanno giustizia agli ingannati!" Il Veltro drizzò le orecchie. La fortuna era davvero una banderuola. Il proclama indusse anche i curiosi più inguaribili a travasare dall'unica entrata. Restarono sparuti tavoli di ubriaconi disfatti, attaccabrighe navigati, il macabro teatrino, le cameriere e l'ostessa che strepitò: "Se dovete regolare i conti, fatelo fuori da qui o chiamerò i Tagliamani!" Horla picchiò le manone sul tavolaccio. "Mai una serata libera!" si lamentò. Impugnò l'enorme doppietta, che scartò bofonchiando: "Ah già, voi del Clan non usate meccanismi". Il ponderoso spadone balenò nel suo pugno, leggero come una bacchetta. "Come vuoi, Mantera" sibilò sprezzante Okkultis, facendo segno ai suoi di attaccare.

                                                      Tutto avvenne sveltissimamente. Con sbalorditiva agilità il barbaro scattò verso il primo incappucciato affettandolo come un'aringa. Il secondo lo colpì al torace con la mazza cilindrica, che si schiantò in due monconi. "Madornale errore" sindacò l'Yziaken, calando a due mani la lama sul poveraccio. Intanto Okkultis si era scagliato in direzione di Mantera, che ribaltando la panca a mò di barriera gli strisciò la spalla con il coltello da lancio. "Un pò di chassè?" propose Racne brandendo un khopesh e recidendo la catena del ghoul. Libero dai vincoli e dalla malia del sitar, l'essere ruggì di rauco trionfo avventandosi su una cameriera. Fu il caos. E nel caos chi sa ciò che vuole lo ottiene. Come un'unica entità Mantera e Racne tagliarono la pista, rovesciando sgabelli e abbattendo chiunque e qualunque, lei con la scure falcata e lui con una coppia di costolieri. il cuoco si ritrovò con le proprie frattaglie tra le mani, forse la carne migliore delle sue ricette. Intanto il ghoul scavava nei seni di una villana urlante tentando inutilmente di azzannarle la gola, mentre il fachiro più bianco del suo trucco vagolava alla ricerca di un improbabile aiuto. Lo spadone di Horla, da solo, impegnava contemporaneamente tre vendicatori, uno dei quali vistosamente ferito. Mantera e Racne scavalcarono l'ultimo ostacolo e frantumarono i vetri del finestrone, tuffandosi nel vicolo. Racne sembrava divertirsi un mondo. Okkultis li incalzava, intralciato da una turba di cameriere e ubriachi in disarmo che bastonò a casaccio. La virago mantenne la promessa e soffiò a pieni polmoni in un fischietto di corno dal timbro acutissimo. Il segnale diede la molla al Veltro. aggirò destramente l'area del combattimento, evitando le suppellettili ribaltate e il trapestio di corpi indistinti. Passò accanto alla cameriera riversa al suolo, realizzando distrattamente che era spacciata e che l'orrore cadaverico stava per ghermire il suo tremante negriero. Un guercio dalla dentiera d'oro gli sbarrò il passo puntandogli uno spiede al costato. "Diamo un'occhiata a cosa tieni lì sotto, bellezza!" baccagliò agguantandogli il mantello. Veltro finse di mollarlo, e con l'avambraccio nascosto fece scattare la daga estensibile traforandogli la giugulare. La iena che lo spalleggiava vide tutto e deviò senza colpo ferire. Veltro andò oltre, scorgendo il lembo della tunica di Okkultis sparire nel rettangolo nero dell'invetriata rotta. Il Veltro zompò nella viuzza e proseguì tenacemente la caccia.

                                                               Gli bastò seguire i cadaveri. All'incrocio successivo, in una pozzanghera di sangue neonato, il capo della masnada aveva smesso di giocare all'inquisizione. Al centro del cappuccio luccicava il manico di uno dei pugnali di Mantera. Mancava poco all'aurora, le strade di Tananai erano spopolate. I bazar avevano chiuso da poco o stavano per aprire, e il pandemonio al saloon polarizzava i manipoli di vigilanti e i nottambuli. Veltro sudò freddo per un istante, temendo di aver perso le tracce dei fuggitivi. Poi udì una serie di grida, accompagnate da rumori di lotta, scaturire dalle vicine scuderie. Il Veltro piombò sulla scena, silenzioso come un gufo. Uno dei gemelli era addossato a una staccionata, già stecchito. L’altro stava per soccombere a Racne, che lo strangolava con un laccio arcuando la schiena come una contorsionista. "Dai, amore, dimmi che sono brava" gli ansimava accaldata come una cagna prossima all'orgasmo. Sfilando tra le ombre, Veltro puntò all'asso di denari. A giudicare dai nitriti, Mantera stava esportando dalle stalle i quadrupedi con cui tagliare la corda. "Ehi, piccola! Uno rosso per il condannato, e uno nero per la sua prefica!" ironizzava il ladro. Del colosso che stava rischiando la pelle per loro non sembrava infischiarsene granché. "Cosa ne ..." Il Veltro gli apparì dal nulla e gli rilasciò un montante col tirapugni, centrandolo al mento. Mantera si afflosciò come un sacco di stoppie. Il grosso era quasi fatto. Ma il quasi è la cerniera che separa il trionfo dal fallimento. Una morsa avvinse il braccio del Veltro, che fu proiettato all'indietro sulla ghiaia.  Studiò come in un incubo il cappio del lazo, e la parabola discendente del khopesh che fischiava per decapitarlo. Il filo lunato accettò la sabbia in uno strillo d'erinni. Il Veltro rotolò a lato e con prontezza schizzò all'attacco snudando Sentenza. Il duello non cominciò neanche. La striscia penetrò l'ossessa  all'altezza del diaframma, passandola da parte a parte. Nonostante i prodromi della morte, Veltro constatò l’incontestabile bellezza di quel volto. Il Veltro avvitò la spada per allargare lo squarcio ed estrasse brutalmente la lama. Racne crollò in avanti, imbattendosi nella terra che da lì a sempre l'avrebbe ospitata. Veltro nettò e rinfoderò Sentenza. Lo sguardo sorvegliava la sagoma inerme di Mantera, più immobile di un thanatolite. L'aria arida della notte profumava di ritiro anticipato. Veltro adottò con calma le sue precauzioni. Somministrò un paio di calci alle palle di Mantera, che protestò nel deliquio, e gli pestò la nuca con lo stivale rispedendolo in fondo al pozzo dell'incoscienza. Poi gli annodò i polsi con del cordame, e le caviglie in una cinghia di cuoio. Lo trascinò per la collottola nel ciarpame fino al recinto del dromwar, dove liberò il suo varano dalla segregazione. Canticchiando, Veltro issò la taglia sul dorso gibboso del bestione e fece per togliere il disturbo. Il gemello superstite si reggeva le ecchimosi, sbuffando come un mantice forato. Veltro si arrestò sull'onda di un'illuminazione improvvisa. Si chinò sulla salma prona di Racne, e col temperino gli resecò l'orecchio tatuato. "Un souvenir per un'amica" si giustificò imboscandolo nel mantello. Lo stalliere lo contemplava, affralito e sconcertato, ed il Veltro ebbe un altro guizzo di genio. Era la sua serata di grazia. Accanto alle greppie individuò una gabbia metallica saldata al pianale di un  carretto, usato per il trasporto di bestiame vivo. L'ideale per il suo scopo. Il proprietario non si oppose mentre il Veltro lo assicurava al dromwar, remissivo al basto come alla sella. Scrollò Mantera come un tappeto, poi calciò al gemello sopravvissuto la sua bisaccia tintinnante.  "Tienila per il disturbo. Ah, Viva la morte …". Il dromwar risalì il centro di Tananai con il nuovo carico e la stessa andatura plantigrada. Veltro massaggiava il calcio del suo catenaccio. Svoltato l'angolo, una voce cavernosa gli intimò: "Dove pensi di andare, sacco di merda?" Horla era piantato in mezzo alla via, l'artiglieria alzata contro di lui. L'altro braccio gli penzolava slogato al fianco, ed il sangue degli incappucciati lo inzaccherava fino al bavero. La vera epitome del guerriero all'inferno. Veltro non perse tempo a persuaderlo che la sua lealtà era sprecata per un codardo come Mantera, ma gli sparò due colpi in pieno petto. Il barbaro non si mosse, quasi i suoi muscoli fossero di gomma. Horla tirò i grilletti del giustapposto: "Hai finito i colpi. Madornale errore". La knaak gli aprì un occhiello gocciolante tra gli occhi. Si vede che non hai mai viaggiato, lo commiserò il Veltro guardandolo spirare. Le ruote del carro ripartirono, facendone scempio. Restava un ultimo scoglio da superare. All'esterno del saloon si ammassava una ressa di scimitarre sguainate e capannelli di curiosi e testimoni. Veltro intravide anche il socio dal muso sorcino dell'aggressore sgozzato. Decine di sguardi diffidenti lo indussero al contrattacco. "Questo ladro non gode più dell'impunità di Torcia!" improvvisò indicando Mantera in gabbia "E' un traditore e un assassino. Su mandato di Tiamat Aurotene, ho l'incarico di condurlo a Port Tijaratur per consegnarlo all'autorità" Poi ficcò le cartucce nella rivoltella facendo ticchettare il tamburo. "Se qualcuno intende opporsi, si faccia avanti" Le lingue dei presenti furono le sole cose addormentate a Tananai quella notte.          
 
 
 
 
 
 
 

lunedì 9 gennaio 2017


SPIRAGLI DI BUIO

Universo di Crypt Marauders Cronicles

2.   L’INFERNO NON HA MAPPE

     

                                                                Grauser lo introdusse  in un angusto passaggio secretato da un pannello di palissandro, sul retro della taverna. Un corridoio rischiarato da lumi a olio sprofondava in uno spazioso salone sotterraneo, dove il Veltro sgranò gli occhi. Lo sfoggio di fasto e indecenza non aveva rivali nella sua memoria! Su plinti d'onice candelabri tempestati di murre e topazi si aprivano come orchidee elargendo una luce afrodisiaca. L'aria era un incensiere di essenze inebrianti, frangipane, coriandolo, aloe e cannella, e le pareti florilegi di stucchi artistici, damaschi ornamentali, flabelli di pavone, panoplie di reliquie e di armi inaudite fabbricate con minerali sconosciuti e parti di scheletro. L'arredo predominante era un enorme letto a goccia, sul quale un trio di amanti ignudi si dava discretamente da fare. Le fattezze delle due odalische, una dall'incarnato liliale e l'altra scura come bronzo rovente, sarebbero state la fortuna e forse la perdizione di tutti gli imbrattatele di Rosavena. Il giovane gonzo, un discobolo di sculto marmo corvino, le intratteneva con una tale bestemmia tra i quadricipiti da indurre il Veltro a distogliere involontariamente lo sguardo. Che cadde su una figura femminile discinta e avvenente, adagiata su un faldistorio foderato di organza, forse in procinto di aggregarsi al baccanale. "Emebet, ecco lo straniero che attendevate" annunciò il nano profondendosi in un salamelecco. La donna si drizzò con una movenza aggraziata e felina. "Benvenuto nella mia alcova. Io sono Tiamat Aurotene" Camuffando una schietta incredulità, Veltro esaminò con maggiore attenzione la controparte della condotta. Non palesava più di venticinque primavere, anche se un guizzo di oscura intelligenza nei torque ambrati delle sue iridi denotava una scaltrita esperienza che trascendeva la giovane età. L'aura di Tiamat era quella di un sogno pericolosamente incarnato. Il volto, dal naso  aristocratico e le labbra altere, era rabescato di henné rosso squillante e drappeggiato da un'acconciatura alta ed elaborata di riccioli ramati. Una ragnatela di trasparenze discinte pronunciava i fianchi stretti e quasi mascolini, spartiacque tra gambe affusolate e atletiche e una doppietta di seni fermi come lune. A cavallo di essi un monile d'elettro e lapislazzuli riproduceva il geroglifico ottopode in calce alla missiva d'ingaggio. Le lunghe dita adorne di tatuaggi criptici schioccarono all'indirizzo del prestante virgulto, che si snodò dallo sconcio triangolo lasciando le donzelle ad arrangiarsi da sole. A giudicare dai mugolii ininterrotti, non sembravano particolarmente contrariate ... "Non fatevi caso" flautò Tiamat con un sorriso smaliziato, indicando al Veltro una scranna di padouck "Sono venuste quanto selvatiche. In un posto dove la vita conta meno della morte, il minimo che si possa fare è circondarsi di cose belle e ricercate ..." Il servo statuario riapparve reggendo una caffettiera d'argento e due tazze a zampa di leone. Grauser si addossò taciturno alla parete, immobile come uno dei cimeli esposti. "Il miglior karkadè di Port Tijaratur" offrì Tiamat. Il Veltro declinò recisamente, evitando di mostrare il disagio per la vicina proboscide. "Capisco" disse Tiamat mescendosi l'infuso e sorseggiandolo per prima "Come vedete, non è avvelenato ..." Liquidò il negro, riadagiandosi voluttuosamente sul faldistorio. "Vi prego di perdonarmi per il contrattempo di poco fa" riprese "ma come intenderete una persona nella mia posizione deve saper salvaguardare i propri interessi" "Nessun problema" si schermì Veltro "Mi ha aiutato a chiarire il perché vi siate rivolta a un professionista d'oltremare ..." "Touché" ammise Tiamat "Pare che non amiate i preliminari. Dote pregevole in un sicario, meno in un concubino" "Dipende dai punti di vista!" "Allora ascoltate il mio" Il viso di Tiamat si atteggiò a una assorta durezza, mentre il suo timbro pieno di aspirate esponeva meticolosamente i fatti.

                                                     "Noi Aurotene siamo i discendenti di una illustre famiglia di impresari e commercianti, più antica di qualsiasi cabala o gilda di Thanatolia. Per convenzione, il ramo rappresentato da mio cugino Levias cura gli interessi familiari ad Handelbab  e nei deserti cinerei, mentre Port Tijaratur è nostra riserva esclusiva. Avete già conosciuto Grauser, il mio consigliere ..." Il nominato montò un sogghigno di circostanza "La situazione al sud è assai più articolata che al nord. Là bastano le spade di un buona milizia, e argentieri che sappiano far girare gli abachi. La Baia è un habitat estremamente complesso, balcanizzato da vecchie tensioni e nuovi antagonismi. Oltre ai ladri e ai tombaroli qui abbiamo corsari, schiavisti, trafficanti e affaristi di ogni vaglia, pronti a destabilizzare i delicati equilibri di cui la nostra organizzazione si è sempre fatta scudo. Suppongo sia un poco come da voi: potentati, corporazioni e signorie in perenne conflitto per il medesimo osso ...” Veltro annuì. “ Chi è incaricato di custodire l'ordine ha dalla sua la diplomazia, ma anche la fermezza. Se un cane ti si rivolta contro, puoi metterlo alla catena. Ma se riesce a liberarsi e comincia a seminare discordia a tuo detrimento, allora è tua responsabilità abbatterlo" "Di quale cane stiamo parlando?" Tiamat inarcò le sopracciglia disegnate. "Si chiama Mantera. Un predatore di cripte di prim'ordine, forse il meglio su piazza. E' stato il più assiduo dei miei fornitori. I tesori che lui trafugava e che io ricettavo toccavano cifre da capogiro. Un bandito senza scrupoli, dall’audacia ammirabile. Non sembrava temere nulla, men che meno la morte. E infatti due lune fa ha trucidato tre dei miei scherani nel corso di una transazione, portandosi via il mio argento e una delle mie schiave." "Sarà stata una bella somma ..." "Non mi importa di quello!" tuonò Tiamat, gli occhi rosseggianti come tizzoni "Ho abbastanza dobloni da colare a picco una flotta! E' che costui ha osato insanguinare la mia casa, umiliandomi al cospetto di occhi che dovrebbero temermi come i topi temono l'ureo ... Il passato mi ha insegnato che in questo ambiente la credibilità è tutto. In un mare infestato dagli squali, la minima perdita di sangue è il viatico per finire sbranati. Mantera è uccel di bosco, e va beandosi della sua impunità. La ferita deve essere suturata il prima possibile ..." "Con tutto il rispetto, madonna Aurotene" obiettò il Veltro "ma non riesco a capacitarmi di come, data la vostra disponibilità di mezzi, non sia già stato possibile sanare la questione ..." "Thanatolia è il reame delle contraddizioni, oltre che dei morti.Tra i tombaroli vige una sorta di alleanza non scritta, il Patto di Torcia, che li vincola a non tradire in nessun caso un loro congenere. Mantera approfitta di questa assurda tradizione, di gente che venderebbe la madre per un ovulo di oppio!, trovando un omertoso riparo nell'entroterra desertico di Ordog. Abbiamo tentato di stanarlo ma l'uomo assoldato, un tagliagole Izyaken, ha voltato gabbana e corre voce si sia unito alla sua causa..." Veltro soffocò una risata. "In un certo senso, Mantera è già spacciato. A nord e a occidente ci sono le Ceneri, che solo un suicida traverserebbe per intero. A est il Tormenghast e le Foreste di Ferro, dove la sua taglia sventola su ogni asta di bandiera. A sud lo aspettiamo noi ... Però ogni giorno che passa è una crepa che mina la mia rispettabilità! Come posso allungare i tentacoli in questa metropoli se non riesco nemmeno a sbarazzarmi dei parassiti? Io voglio che voi raggiungiate l'entroterra, acciuffiate Mantera e lo riportiate a Port Tijaratur, possibilmente vivo. Vi corrisponderò un extra in questo caso, il doppio ammontare della taglia..." Per poco  Veltro non balzò dallo scranno. "L'importante è che sia riconoscibile. Devo decidere se ingabbiarlo nel Berlicche Bislacco e lasciare che ischeletrisca, o decapitarlo e inalberare la sua testa all'ingresso ..."  Veltro simulò una misurata professionalità, quando ogni atomo del suo essere già schiumava per l'impresa: "Occorrerà del tempo prima che riesca a rintracciarlo. A quanto dicono Thanatolia è immensa, e io non ne conosco nemmeno le mappe" "Non ci sono mappe all'inferno!" interloquì Grauser, traendosi subito in disparte "L'incombenza non vi compete. Malgrado il Patto di Torcia, abbiamo diversi informatori già in loco capaci di orientarvi al bersaglio.... Voi dovrete solo sbrigare il lavoro sporco. E’ per questo che vi pago, e abbastanza profumatamente credo! Adesso potete andare: se accettate, la vostra partenza è fissata per domattina" Il Veltro, leggermente inebriato, si sollevò per accomiatarsi. Grauser lo marcò da presso, un'ombra rimpicciolita e grottesca. Sul letto sterminato il trio di lussuriosi ci dava dentro come se il mondo dovesse schiantarsi quella notte. Veltro apprezzò, senza davvero invidiarla, la loro dedizione. "C'è ancora una cosa" aggiunse Tiamat Aurotene. Veltro la guardò negli occhi, velati da un ricordo tempestoso.  "La schiava rapita da Mantera, si chiamava Racne. Ho il fondato sospetto che sia complice nel tradimento. Ora dicono sia la sua puttana." Tiamat si morse le labbra dolci come vino mortale, nel passare al tu. "Uccidila. Una vita in più o in meno non fa differenza, per uomini come te. Se mi porti il suo orecchio, ti donerò una di queste anticaglie. Sono inestimabili. Al porto potrai piazzarla  a qualsiasi cifra." Il sicario aggrottò la fronte: "Un orecchio?" Tiamat sorrise agramente: "Capirai a tempo debito" Veltro assentì. Le odalische proruppero in un consonante gemito di piacere. "Ora riposa, cacciatore di taglie. Ti aspetta un compito arduo. Tanatholia è avida di sacrifici ..." "Me ne sono accorto" bofonchiò il Veltro riassettandosi la cappa.

 

                                             "Ci sono due modi per raggiungere l'entroterra" chiarì Grauser, incedendo a passo d'uomo su un cammello bonsai "Uno è il Guado, via fiume. L'altro sono le Aquae Marce, bassopiani palustri popolati da strane creature. Si estendono su una rete di camini vulcanici estinti da eoni. I cercatori e i tombaroli battono spesso le antiche caldere, nella speranza di riesumare ancora qualcosa dalle fangaie! Se non sai la strada, corri il rischio di perderti tra rovine putride e tribù di cannibali .... Ah, ecco l'alzaia!" Sul finire della squallida prospettiva, il Veltro avvistò una battigia grigiastra con un natante arenato. Stavano percorrendo una propaggine di Port Tijaratur con le stimmate della miseria, dove il labirinto di casbe e bazar aveva abdicato per grappoli di passerelle, scivoli e palafitte di uno squallore indecoroso. Soverchiati dalle arcate decrepite di un ex acquedotto, ragazzini cenciosi e mendicanti derelitti rovistavano nelle melme dei canalicoli per raggranellare qualsiasi bene più prezioso dello sterco. Un tanghero dal fisico riarso  del lupo di mare si fece loro incontro. Dallo scollo della giubba da stradiotto sgorgava un verminaio di peli stinti. "Viva la morte, Coma'ante!" lo apostrofò Grauser nel folcloristico saluto thanatolico. Coma'ante rispose con uno sputo così veemente da forare la rena. "E' questo il passeggero?" si informò tirando su altro muco. Il nano annuì. Impassibile, Coma'ante constatò: "Siete in ritardo". Nell'accostarsi all'unico battello ormeggiato a quel simulacro di costa, Veltro intuì quale delle due vie per l'entroterra gli sarebbe toccata. L'algosa rampa d'imbarco era desolata salvo due insolite figure intente a fissarlo, una megera dall'aspetto scarmigliato con a mano una bambina scarnita. Per qualche ineffabile ragione Veltro covò l'impressione che lo stessero aspettando. La piccina si slacciò dalla stracciona e sgambettò sulla sabbia. C'era qualcosa di sinistro nel suo deambulare, e quando gli fu alla cintura Veltro si rese conto con raccapriccio che non era affatto umana! I tratti legnosi di plasticarne vagheggiavano quelli di un vitruviano, ma di un modello irrefutabilmente alieno, ignoto in Penumbria. Gli occhi circolari ed espressivi come fori di colubrina si impigliarono nei suoi, ed un brivido lo elettrificò mentre la bocca della bambola gli parlò senza muoversi: "Per uscire pigia due losanghe e un piede di mosca" La mano di cera allungò meccanicamente un oggetto scuro che Veltro accettò sulla base di un impulso coartante. Solo dopo mise a fuoco il frammento amorfo di roccia vulcanica, con l’estraniamento di chi serra nel palmo un talismano dai poteri arcani. "Avanti, pezzo grosso. E' ora di cuocersi le ossa" gracchiò Grauser dalle gobbe miniaturizzate del cammello. Veltro lo squadrò come se le scorgesse in quel momento. Poi risalì la banchina, seguendo con occhi pensosi la bizzarra coppia svanire nello squallore degli abituri.

 

                                                            Il traghetto di Coma'ante, un rattoppato barcone a otto remi, da tempo immemore faceva la spola tra i bassifondi di Port Tijaratur e gli avamposti desertici. Il Guado era incontrovertibilmente il tragitto più celere, grossomodo mezza giornata di voga. Seduto a prora, Veltro valutava sotto la tesa del cappellaccio la tetraggine del panorama. La chiglia dello scafo segava una marana limacciosa, seminascosta da cuore di ninfee e foglie decomposte. La mota lutulenta, punteggiata di isolette spugnose, emanava uno smog mefitico dai miasmi così avvolgenti da ovattare i pallidi raggi del sole.  Veltro consultò per scrupolo la sua cipolla: si, il grande auriga avrebbe dovuto essere già alto ... L'umidità era asfissiante. Nugoli proteiformi di insetti brulicavano tra i canneti e le felci insalubri, avanguardia di una flora dai colori smorti. Concrescenze di nodularie e fungosità albine soffocavano le cortecce cancrenose delle mangrovie tormentate. Una tantum incrociavano altre chiatte, simili o piccole come canoe. Coma'ante ne salutava gli equipaggi con un'alzata del calumet che rosicchiava senza tregua. A bordo, esclusi i miserabili vogatori, c'erano solo tre passeggeri, un adulto un ragazzo e una fanciulla. Se ne stavano a poppa, appartati, abbandonandosi di tanto in tanto in conciliaboli inudibili. La pelle color tabacco e il taglio degli occhi di zaffiro li qualificava come famigliari, oltre che indigeni dell'etnia Izyaken. Paludati nelle djellaba tinte a mano, i maschi indossavano turbanti color arena e la femmina uno scialle indaco che stabiliva un vivace pendant con le iridi lunate dal kajal. Veltro si scoprì a indugiare troppo spesso sul profilo armonioso di quel viso, dai lineamenti intarsiati, il naso pennellato e una voglia a coccinella sulla guancia, tanto che il battelliere si schiodò dal suo grezzo sedile e lo avvicinò a prua. "Un bel bocconcino" gli alitò a insidiosa distanza "ma è più la fatica del gusto. Quegli zingari ti accorcerebbero le orecchie con le takuba se solo si accorgessero di come l'hai occhieggiata!" Veltro riservò a Coma'ante un'occhiata al vetriolo. "Non che la cosa possa impensierirti!" Il traghettatore allargò le braccia smilze "So chi sei. Un duro, a quanto si dice. Ma a Thanatolia anche i duri devono stare in campana: qui niente è mai come appare. Ciò che sembra morto da secoli, un istante dopo può ucciderti ..." Veltro accennò alle malsane nebbie acquitrinose. "Ma sono disabitate?" Pochi metri dopo, in un'ansa del letto navigabile, la bruma si rarefece e una palizzata di giunchi rispose in vece dell'interrogato. La barricata proteggeva una sponda fangosa, dove tepee di cannicci e rozze capanne si raccoglievano attorno ad un totem dalle fattezze ripugnanti. Bipedi inumani dagli arti palmati e il pelame liscio e lucente delle lontre gracidarono all'unisono al passaggio dell'imbarcazione, un ritmico gorgheggio di batraci o di bertucce inquiete che assistano a un misterioso fenomeno naturale. "I Paduli" commentò caustico Coma'ante "Gli autentici guardiani del Guado. I loro idoli sorgevano tra i giunchi ben prima che gli Antesignani erigessero obelischi agli dei perduti ... Non sono malvagi, non deliberatamente almeno. Talvolta capita che un tombarolo sprovveduto violi uno dei loro tabù, ed ecco che invece delle limacce nel pentolone tribale ribolle uno stufato più  roseo e succulento... Fosse per me, farei tutto un paglione di quella feccia sbragata e ci appiccherei un bel rogo!" Coma'ante sottolineò la sua opinione con un parabolico scaracchio nella gora, poi si ritirò borbottando alle plance. Gli Izyaken, improvvisata una nenia augurale, pasteggiarono a datteri e pane azzimo. Lo spuntino riattizzò il languore del Veltro, che rovistò nella scarsella in cerca di una razione. Le sue dita inciamparono in qualcosa di freddo e sconosciuto. Il frammento di carbone vulcanico! Incredibile come avesse rimosso lo strano incontro di poco fa … Ruminando vitella essiccata Veltro esaminò l'insignificante lapillo, mentre un'idea suggestiva prendeva autonomamente corpo nella sua testa. Rispolverando i rudimenti del Pirruccio, suo giovanile maestro di bottega, Veltro si armò di un temperino robusto e si mise all'opera.

                                              Il quarto conclusivo del Guado si spalancava in un delta di acque correnti, dell'estensione di un ramo lacustre. I nodosi vogatori pagaiavano con rinnovata lena, pregustando i conforti della tappa. Veltro scrutava i flutti stigi spingere pigramente a valle gineprai di radici e grossi tronchi dalla scorza scagliosa. Uno di essi filava controcorrente, in un bulicare di spuma. Veltro si ritrasse d'istinto dal bordo. Un collo serpentino e bicipite, lungo come quello di una giraffa, si aderse dalla fanghiglia sondando la foschia con due paia di gialli occhi da cerasta. Un attimo dopo, una delle teste si disintegrò in un boato. Più allarmato dallo sparo che dal mostro, Veltro vide Coma'ante brandire una spingarda arrugginita e sghignazzare senza costrutto. Il plesiosauro si inabissò inchiostrando il volutabro di icore sugoso. Attraccarono a mezzogiorno tra le pinacce di un molo modesto, che si incarniva in un insediamento di vongolari dall'aria depressa. I passeggeri si accalcarono simultaneamente alla rampa di sbarco. Gi Yziaken trascinavano sbuffando il frutto dei loro baratti a Port Tijaratur. Senza farsi notare, Veltro sfiorò la mano guantata della giovane nomade e le ripose nel palmo il pezzo intagliato di pietra nera. Stava correndo un rischio serio quanto inutile. La fanciulla guardò la figurina, strabuzzando gli occhi scintillanti. Poi, in una frazione di secondo, sorrise al Veltro e intascò il dono imboccando la passerella. La stessa ignota ragione che lo aveva indotto a compiere quel gesto gli infuse una sensazione di misterioso appagamento. I preparativi per il cammino furono sbrigativi. Veltro acquistò acqua, coperte e provviste all'unico emporio di Omorto, e al maneggio contrattò per una cavalcatura ibrida che fino ad oggi aveva udito solo nelle ballate thanatoliche. Il dromwar, una grottesca combinazione di un sauro e un dromedario, era più brutto di quanto immaginava, ma la sua estetica era compensata dalla docilità ed un’impareggiabile refrattarietà alla disidratazione. Sulla squamosa nave del deserto, Veltro era pronto ad affrontare il reame dei morti. Dal villaggio si dipartivano solo due itinerari. A est i picchi brulli del Tormenghast, verso cui l'eterogenea carovana di zingari andava avviandosi a dorso di mulo. E a ovest ... Veltro uscì da Omorto transitando davanti all’unico, laido postribolo. Sotto il patio avvistò Coma'ante, che gli ragliò: "Buona caccia, pezzo grosso! Tiamat mi paga fino alla prossima luna per aspettarti. Vedi di fare in fretta: qua il vino è di saguaro, e le baldracche hanno stracci al posto delle tette!" "Puoi sempre sparare ai serpenti" lo consolò il Veltro. Il barcaiolo snudò i denti ingialliti ma integri in un riso torvo: "So di non andarti a genio, ma ti assicuro che trent'anni in questo inferno non addolciscono il carattere ... Vuoi il consiglio di un incivile? Batti le Piste Calpeste, forestiero, e non deviare mai dalla rotta consigliata. Le scorciatoie là fuori conducono a un'unica direzione, e non ci vuole un savio per immaginare quale sia..." "Viva la morte a voi, Coma'ante! Fatevi trovare nei paraggi, al mio ritorno" Il Veltro spronò il dromwar, che con una specie di bramito si mise in marcia verso il deserto di Ordog. 


 

giovedì 5 gennaio 2017


SPIRAGLI DI BUIO

Universo di Crypt Marauders Chronicles
1.        MOVESI IL VELTRO
                                  Quando il suo sguardo onnicomprensivo catturò un volteggiare di ali nere contro il cristallo del cielo, il Veltro capì che l'ozio era finito. Con insospettato rammarico ripose le cesoie nella gerla, e sotto il baldacchino dei pampini calcò il sentiero che dalla vigna risaliva al vetusto mulino. Il mezzogiorno era torrido, malgrado l'estate boccheggiasse sul greto dell'equinozio. Zolfo sonnecchiava regale come un idolo d'ambra nello spicchio di fresco dell'aia. Dentro casa i Vitruviani sbrigavano le ordinarie faccende per le quali erano stati assemblati, al ritmo indefettibile dei loro ingranaggi di rame. Veltro pestò i pioli malfermi del torciglio di scalini e salì in piccionaia. Quassù la polvere ingrigiva ogni cosa, tranne le piume d'ebano della nocciolaia che gracchiava impaziente sul cornicione. "Benvenuto, mio buon postino!" Veltro gli strusciò il becco a pugnale, appropriandosi del rotolo di carta annodato alla zampa. Ecco un altro contadino che semina per il mietitore, rifletté serafico erudendosi sul contenuto del messaggio. Un climax di interesse e meraviglia gli corrugò l’austero cipiglio. Come supposto si trattava di un'offerta di lavoro, quella che i sicari di mestiere definiscono gergalmente “condotta”. Il fatto anomalo è che l'araldica e l'identità del mandatario gli erano del tutto estranei: una specie di piovra ottopode, con le suggestioni del rospo e del drago, controfirmato in calce da un certo Tiamat Aurotene ... Per non parlare delle coordinate dell'appuntamento! Taverna del Berlicche Bislacco, Port Tijaratur, Thanatolia. Thanatolia … il reame dei morti! Sul pianeta non esisteva meta più esotica e favolosa per un cacciatore di taglie! Nel corso delle generazioni l’ago della suggestione e il filo dell’arcano avevano ricamato attorno a quel nome un’aneddotica avventurosa quanto sinistra. Al fuoco diaccio dei bivacchi, e dopo un paio di passaggi di fiasca, i veterani alludevano spesso a quel sepolcreto di cimeli preistorici con un misto di cupidigia e venerando timore. Tutt’oggi il suo fascino obliquo e nebulare calamitava guerrieri, ladri e occultisti da ogni angolo dei tre Continenti come un magnete attrae la limatura di ferro. Molti partivano, pochi tornavano. Così il reame dei morti poteva eternare le sue agghiaccianti leggende, e le sue conturbanti lusinghe. Osservando il pennuto svolazzare verso sud, il Veltro avvertì il sapore irrazionale del pericolo allegargli le gengive. Ma non ingannò se stesso con romanticismi da avventuriero: se accettava l'investitura era per il guiderdone. Il più generoso della sua prezzolata carriera. Un tocco più tardi stava già in arcione di Anemone, l'equipaggiamento assicurato alla sella. Non lasciò istruzioni ai domestici poiché si trattava di costrutti di ferro e di ottone, i cui meccanismi avrebbero seguitato a rispettare le consegne programmate senza bisogno di ingiunzioni. Gli artigli di Zolfo avrebbero tenuto alla larga sorci ed intrusi. Prima di sciogliere le briglie Veltro contemplò il vecchio mulino e l’acro di vigneto, che digradava in un’argenteria di olivi e di mirti a picco su una cala di onde color cedro. Contava di rientrare per la luna nuova, quando dall’uva si sarebbe spremuto il mosto del primo tuschero, e con abbastanza risparmi in tasca da dedicarsi per sempre alla viticoltura.
 
                                        La galoppata fu corroborante, al riparo del sottobosco fragrante tra dossi macchiettati d’armenti in transumanza. L'oceano cromava l'est, con la perseveranza degli esseri immortali.  Veltro moderò il trotto quando vide un pennacchio di fumo librarsi da un noceto ai bordi della mulattiera. Soldatino lo accolse con il rustico calore dello scudiero. "Quanta biada, stavolta?" "Più del solito, vecchio mio. Ho idea che non sarà un'escursione fuori porta ..." Veltro non aggiunse altro, e Soldatino non domandò oltre scortando la giumenta nel conforto delle stalle. Veltro si predispose ad entrare in città senza dare nell'occhio. Indossò un petaso frusto e si intabarrò in una cappa, sotto cui nascose la scarsella e la spada smontabile. Gli stivali impolverati erano abbastanza capienti da occultare ambedue le pistole. Veltro abbandonò la boscaglia, e si attardò sulla strada maestra che scendeva a Rosavena. I masti e le torri apparivano struggenti a quell’ora del meriggio, e i propugnacoli eburnei riflettevano le dorature cremisi del sole in declino. Le ombre dei contrafforti si allungavano come ali di corvo sul viandante, che affrettò il passo. Il crepuscolo urgeva.  Dagli spalti strapiombavano gli stendardi gigliati dell’Autoritas, e nelle bertesche lumeggiavano le lanterne e gli archibugi del corpo di guardia che si apparecchiava alla ronda notturna. Nessuno alla porta badò al tiratardi appiedato e male in arnese. Era l'ora in cui i signori si asserravano nei loro monumentali palazzi, e le arti e il volgo valutavano se passare la notte nel  talamo o nel giaciglio di qualche bordello. Il bagliore aranciato delle lumiere guidò Veltro al Cantinon de' Pazzi, una bettola congeniale alle sue esigenze: desco commestibile, biancheria di bucato e l'usanza a bruciarsi ognuno i propri pidocchi. L'indomani si alzò alla buon'ora, in tempo per presenziare all'apertura del Gran Tavolo dei Crediti e impegnare il primo addetto al banco. "Esatto, Voscenza. La scorsa ebdomada sono state accreditate duemila lune sul conto a voi intestato" confermò il compunto cambiavalute dai boccoli posticci. Veltro fischiò mentalmente. Per consuetudine, il contratto da sicario prevedeva il versamento anticipato di un quinto della taglia complessiva. Qualunque fossero le sue losche trame, il thanatolico faceva sul serio:  in Penumbria, una luna equivaleva al salario mensile di un tessitore ... Veltro prelevò il necessario per il viaggio, e traversò Rosavena da poco ridesta in direzione del porto. I Terzi fervevano. Erano i giorni che precedono l'Arpasto, e Piazza del Palio era deserta e intonsa come un santuario in attesa del catartico lavacro di sangue e ossa ammaccate. Veltro ammirò nell'olimpo del giorno il profilo di platino dell’Arengarium, la severa roccaforte in travertino dell'Autoritas addossata al cassero settentrionale. Sulla riva opposta dell'Orna si stagliava la trista bomboniera del Nefasterio, giudecca dei sediziosi e dei mestatori. Le mura invalicabili del carcere politico erano infradiciate dalle pitture infamanti dei fuoriusciti condannati in contumacia. La sua era stata abrasa molto tempo fa. Ponte dei Portici lo addentrò nel Terzo dei Mirabilia, dove fu accolto dallo stuporoso clamore delle magone e dei gabinetti degli inventori. Dagli antri che sbadigliavano sulle calli affollate filtrava il concerto stridente di mantici e sifoni che insufflavano vita automatica ai servomeccanismi cigolanti e alle dinamo ronzanti, alimentate dal propellente di fornaci sputafiamme. E ancora, nell'atanor prodigioso, colse il riflesso corrusco di specchiere semoventi e clessidre eteroclite sommerse dal brusio infernale di ectopici congegni di dischi  e sfere misteriosamente levitanti. Vitruviani umanoidi e zoomorfi si aggiravano tra quegli strambi meandri al tempo vagamente epilettico delle loro anatomie artificiali, mentre la calca era fesa dall'apparizione di grotteschi celeriferi e da trampolieri che stantuffavano su schinieri di molle sbuffanti. Alle porte di un edificio dai tratti barocchi una vasca a guscio di noce provvista di ali coriacee e un'enorme coda falcata tentava di sollevarsi dal suolo in dispregio alle leggi di gravità. "Più pressione in quei tubi!" esortava l'ingegnere all'assistente, un fantino paonazzo dai googles antipolvere intento a pedalare e a orientare il pesante manubrio a balestra. L’effigie sul frontone dello stabile, il compasso tra un'ombra di sole e una mezzaluna, rivelò al Veltro che si trattava dell'officina di ser Galileo Ottocingoli, scienziato, alchimista e vecchio socio d'armi e scorribande. Quel genio visionario e balordo alla fine aveva fatto strada! La sua barba filosofale e il mazzocchio a pois latitavano però dalla scena, così Veltro proseguì verso la darsena in cerca di un legno diretto a Port Tijaratur. I velieri traccheggiavano alla fonda. "I sciarebbe la Ruza Vietor, ma face tappa a Lampusia. Sta scialpando mò mò" disse in argot un portolano adusto come fegato essiccato. La buona stella arrideva al Veltro. A bordo c'era ancora posto per un passeggero senza cavalcatura, e Veltro contrattò col primo ufficiale per una cabina appartata. Le amache comuni dei bastimenti erano il posto ideale per buscarsi la scabbia o una pugnalata. La Ruza, un’agile cocca tuxiana a vele quadre, salpò con gli alisei in poppa. Navigò proficuamente per due giorni e una notte, compiendo un rapido scalo di cabotaggio in un porticciolo riparato, dove scaricò tessuti e imbarcò barili d'acqua e derrate. Come predetto dal segaligno alturiere la seconda sera il vasello ormeggiò nell’ampio golfo di Lampusia, l'ultimo atollo civilizzato del Magnum Vacuum che separava la Penumbria dal Continente dei Morti. Veltro snobbò i lupanari dei fondachi e pernottò in cabina, disturbato dal ciclico saettare del titanico faro di bronzo a forma di testa di gorgone che era il prisco emblema dell'isola. L'alba seguente la Ruza infornò un nuovo carico di avventurieri e mercatanti dall'aria quantomeno picaresca, e fece rotta a vele spiegate per Port Tijaratur. La navigazione durò tre giorni. Il Veltro trascorse la maggioranza del tempo sottocoperta, in cabina, a oliare i tamburi della Knaak e della monocolpo e ad affilare l'acciaio temperato della sua lama, Sentenza. Compariva sulla tolda solo quando albeggiava o al primo vespro, mentre il grosso della ciurma era nel focone a strozzarsi col rancio. Veltro inalava l’ossigeno salso, osservando le onde infrangersi aggressive sulla carena e morire in schiuma assorbita dagli ombrinali. Al di là dell'impavesata le mostruose profondità del mare, nero come  vino, serbavano enigmi insondabili. Proprio come il suo futuro.
 
                                        Port Tijaratur apparve al crepuscolo, simile a un relitto incagliato tra scogli aguzzi e vulcanici. La sua baia era punteggiata da faraglioni subdoli che resero ingrate le manovre di approdo. Sulle chiassose banchine il Veltro si mischiò guardingo e stupito ad uno sbalorditivo carosello di personaggi, accenti ed effluvi. I ghetti del porto erano una sentina cosmopolita e promiscua, la mecca di mercenari, bardi, stregoni, coribanti, pirati, bracconieri, parafiliaci, disertori e perseguitati di innumerabili contrade. Nel breve tragitto che lo instradava alle porte, Veltro si imbatté in ogni risma di vesti e ornamenti conosciuti: gilè sgargianti e farsetti di velluto, fusciacche variopinte e corazze ammaccate da mille mischie, morioni e turbanti bicorni, monili di corallo e orecchini di piume, bracciali artigliati e scudi dai blasoni scoloriti. Raccapezzarsi in un simile marasma era proibitivo, così  fu costretto ad assecondare le profferte di uno dei tanti imbonitori dai modi untuosi quanto il vaporoso caffettano. "Porto hascisc papavero anhalonium, Effendi! Bisca, forse? Donne, vergini, efebi? Subito!" Affatto impressionato dal compendio di corruzioni, Veltro menzionò il luogo dell'appuntamento con Tiamat Aurotene. L'espressione del lenone divenne mercuriale. "Il Berlicche Bislacco ... No, no, Effendi: sconsigliabile, senza invito"  Veltro gli sventolò il messaggio dallo strano simbolo sotto la lancia del naso. Come ad un segnale convenuto, il thanatolico accennò un inchino ed evocò ad aspra voce dalla turba un monello che non toccava sapone dal primo dente. "Una rupia per inizio e una per fine di trasporto" decretò ridanciano, invitando il Veltro a sistemarsi nel carrello di un decrepito risciò. Come filava tra le stanghe quel soldo di cacio, attrezzato di polpacci ipertrofici e piedi talmente callosi da ignorare il tappeto di lordure che foderava i vicoli di Port Tijaratur! La megalopoli era un dedalo di angiporti, bazar e presepi equivoci di mendicanti, baldracche e sciuscià. I suk, perlopiù in paglia e ciottoli cementati col fango, ostentavano scale esterne e finestrelle buie come orbite di teschi, sorreggendosi a vicenda come ubriachi all'uscita di un’osteria. Al centro delle strade correva un rigagnolo fetido di rumenta e liquami, e sui lati si aprivano scorci d'acque sudicie che si addentravano nel centro dell'abitato come vene reflue verso un cuore dissoluto. Dopo l'ennesima diramazione il carretto decelerò fino ad arrestarsi ai margini di una sordida agorà illuminata fiocamente. "Ecco la samarcanda!" additò brioso il giovinastro, convertendo il segnale nel palmo concavo che alloggiò la rupia pattuita. Lo scricchiolio delle ruote fu ingurgitato dalle latebre di vicoli invisibili. Malgrado la caldura tropicale Veltro si strinse nel mantello, e carezzando l'elsa di Sentenza guadò la piazzetta solitaria. Un cero cadaverico incorniciava un varco scevro di insegne. Da uno strato di tende filtrava un tenue fantasma di musica . Veltro quadrò il suo centro ed entrò.
                  Affrancata dai drappeggi, una risacca di suoni e di odori travolse i suoi sensi illanguiditi. L'interno era inaspettatamente vasto, organizzato in emicicli di divani fronteggiati da plinti  colmi di gradali e fruttiere. In mezzo alla pista un piccolo harem di baiadere dalle cavigliere d'osso ancheggiava voluttuosamente al ritmo sincopato dei nafil. Sebbene i soffusi bracieri relegassero gli avventori nella penombra, Veltro captò su di se il peso di sguardi sospettosi. Ostentando indifferenza, si mosse nell'aria affumicata dai narghilè. Scartò una tersicorea  troppo audace, che lo strisciò con uno sguardo licenzioso, ed entrato nel campo visivo dell'oste ne capitalizzò l'attenzione. Era un quintale di lardo massiccio nudo fino alla cintola, dalla complessione ginoide e la labbra lubrificate da qualche unguento. Fingeva di mescere dell'assenzio a due contrabbandieri barbuti e truci, ma non riusciva a schiodare gli occhi porcini dai suoi. "Cosa ti ha condotto così in basso, forestiero?" gli ammiccò porgendogli un cicchetto di liquore narcotico. Il Veltro passò. "Non sono qui per sbronzarmi. Devo incontrarmi con Tiamat Aurotene. Lo conosci?" L’eunuco scrollò le spalle glabre, stendendo il collo per ingollare l'intruglio rifiutato. "Mai sentito" ruttò. La pazienza del Veltro cominciava a scricchiolare. "Ehi, magari posso aiutarti!" chiocciò una voce al suo fianco. Veltro ruotò il capo fissando i due bevitori, che lo ricambiarono di un'occhiata poco amorevole. "Dicevo, se stai cercando Tiamat forse posso esserti utile" Veltro abbassò la visuale di mezzo busto, e notò un nanerottolo dalla trabea tigrata allargargli un sorriso accattivante dal periplo di barba artefatta. Portava un pince-nez di lenti ottagonali rutilanti che sfaccettavano l'espressione sconcertata del Veltro come un gioco di specchi distorcenti. "Io sono Grauser. Hai un invito, suppongo" Veltro annuì, mettendo mano alla tasca.  "Grandioso!" esclamò "Tu saresti il famigerato Veltro, il miglior spadaccino di Penumbria!" L’interpellato non controbatté all'ovvio. Grauser lo radiografò per un lungo istante dietro gli assurdi oculari. "Seguimi" gli ingiunse e prima che potesse ribattere lo gnomo aggirò il bancone su gambe valghe come zampe caprine, scomparendo in un passaggio guarnito da un sipario frusciante. "Rallenta, maremma!" smoccolò il Veltro rincorrendo Grauser nel pertugio. Si ritrovò in un androne buio attestato su un cavedio chiuso da mura fatiscenti, probabilmente il retro del Berlicche. Veltro avanzò di qualche passo, calciando inavvertitamente rivoli di immondizie. Lo sconosciuto interlocutore sembrava essersi fatto magicamente di nebbia. "Dove fava si è cacciato ..." mormorò Veltro, ma il disappunto gli morì in gola sopraffatto dall'atavico istinto di sopravvivenza. La morte, ossuta testarda, sfiorò il Veltro col calante di una scimitarra nera che recise l'aria dove un istante prima svettava la sua capa. Veltro uscì dalla schivata, sguainò la spada e vibrò una stoccata al plesso dell’ingombrante apparizione. La punta incontrò una resistenza imperforabile, e la lama non si spezzò solo in virtù della sua metallurgia d'avanguardia. L'assassino ruggì di rabbia. Respinse il Veltro con una stivalata e bilanciò le scapole per menare un micidiale fendente a due mani. Con l’agilità di una lonza  Veltro gli entrò nella guardia, e affondò due spanne di Sentenza nell'occhio sinistro. La scimitarra, di colpo insostenibile, rovinò tra i rifiuti, imitata dall'incauto possessore appena realizzò di essere morto. Ma in Thanatolia la tregua è merce rara, e una garrota avvinghiò senza preavviso la sua gola indifesa. Veltro perse la spada, mentre una volontà nerboruta lo costringeva in una chiazza d'ombra segandogli dolorosamente la trachea. Aveva pochi secondi prima che l'anossia usurpasse le sue facoltà di giudizio. Le pistole erano irraggiungibili, e una prova di forza con un maestro strangolatore era da stolti. Così il Veltro artigliò con il braccio la nuca incappucciata dell'uccisore, e con l'altro fece scattare la lama protrattile celata nella manica. Infierì alla cieca, deciso. Il gaglioffo allentò la morsa con un cachinno d'agonia, seguito da una dura gomitata nel costato. Veltro uscì dall'angolo. Si controllò il collo, pronto a recitare l'atto conclusivo. Lo strangolatore, sfregiato, emerse dal buio nell'uniforme di bende mimetiche. Brandiva un lungo kriss a foggia di biscia. Decaduto l'effetto sorpresa,  si avventò come un bufalo impazzito sulla vittima renitente. Veltro non attendeva altro. Si liberò della cappa con la fulmineità di un illusionista, irretì il nemico nel suo stesso impeto offensivo, e adescatolo tra le falde del mantello il Veltro invertì i ruoli. Con un passo di gagliarda si portò alle sue spalle e gli conficcò lo stiletto nei polmoni, più e più volte. Gorgogliando gli ultimi sputi di vita, il marrano tirò le cuoia. Veltro frugò tra le ombre predisponendosi al peggio ma il cortile appariva tranquillo, ora. Per prima recuperò Sentenza, assicurandosi che nessun graffio ne scalfisse la letale efficienza. Poi studiò le due salme, badando a non inquinarsi con l'icore che già ne allagava le forme afflosciate. Scostò i bendaggi che fasciavano le loro identità, e sotto la luce ossea della luna vide solo lineamenti levantini e insignificanti di colleghi malcapitati. Veltro non provò né colpa ne odio, almeno non per loro. In tre furiose falcate raggiunse l'uscita posteriore, sforbiciando il velario con la sciabola. La sua comparsa ammutolì i pifferi del Berlicche Bislacco. Viziosi e peripatetiche impietrirono le ugole e gli ombelichi mentre il Veltro scavalcò il bancone con un balzo tigresco e levò il filo sporco di sangue alla pappagorgia gelatinosa dell'oste esterrefatto. "Stura le orecchie, palla di merda!" sbraitò "Non ho fatto una settimana in una cabina muffosa per finire in qualche fossa comune... Adesso, o mi dici dove cazzo trovo Aurotene o la prossima cosa che berranno quei due lestrigoni sarà il tuo colesterolo!" Il bidone balbettò una frase che ricordava il pigolio di un pollo sul ceppo. Un sincero battimani si propagò nel silenzio alle sue spalle. Le pupille di ghiaccio del Veltro traslarono, inquadrando Grauser assiso sul raso zebrato di un triclinio. Una procace baiadera gli vezzeggiava la barba arzigogolata con le unghie smaltate di rubini. "Non mi divertivo così dall'ultima rissa di Malqvist!" Grauser congedò la mignotta con una strizzata al seno giunonico, e si issò sulle tozze gambe da nano. "Adesso seguimi, Veltro di Penumbria. E’ ora di fare sul serio"