giovedì 5 gennaio 2017


SPIRAGLI DI BUIO

Universo di Crypt Marauders Chronicles
1.        MOVESI IL VELTRO
                                  Quando il suo sguardo onnicomprensivo catturò un volteggiare di ali nere contro il cristallo del cielo, il Veltro capì che l'ozio era finito. Con insospettato rammarico ripose le cesoie nella gerla, e sotto il baldacchino dei pampini calcò il sentiero che dalla vigna risaliva al vetusto mulino. Il mezzogiorno era torrido, malgrado l'estate boccheggiasse sul greto dell'equinozio. Zolfo sonnecchiava regale come un idolo d'ambra nello spicchio di fresco dell'aia. Dentro casa i Vitruviani sbrigavano le ordinarie faccende per le quali erano stati assemblati, al ritmo indefettibile dei loro ingranaggi di rame. Veltro pestò i pioli malfermi del torciglio di scalini e salì in piccionaia. Quassù la polvere ingrigiva ogni cosa, tranne le piume d'ebano della nocciolaia che gracchiava impaziente sul cornicione. "Benvenuto, mio buon postino!" Veltro gli strusciò il becco a pugnale, appropriandosi del rotolo di carta annodato alla zampa. Ecco un altro contadino che semina per il mietitore, rifletté serafico erudendosi sul contenuto del messaggio. Un climax di interesse e meraviglia gli corrugò l’austero cipiglio. Come supposto si trattava di un'offerta di lavoro, quella che i sicari di mestiere definiscono gergalmente “condotta”. Il fatto anomalo è che l'araldica e l'identità del mandatario gli erano del tutto estranei: una specie di piovra ottopode, con le suggestioni del rospo e del drago, controfirmato in calce da un certo Tiamat Aurotene ... Per non parlare delle coordinate dell'appuntamento! Taverna del Berlicche Bislacco, Port Tijaratur, Thanatolia. Thanatolia … il reame dei morti! Sul pianeta non esisteva meta più esotica e favolosa per un cacciatore di taglie! Nel corso delle generazioni l’ago della suggestione e il filo dell’arcano avevano ricamato attorno a quel nome un’aneddotica avventurosa quanto sinistra. Al fuoco diaccio dei bivacchi, e dopo un paio di passaggi di fiasca, i veterani alludevano spesso a quel sepolcreto di cimeli preistorici con un misto di cupidigia e venerando timore. Tutt’oggi il suo fascino obliquo e nebulare calamitava guerrieri, ladri e occultisti da ogni angolo dei tre Continenti come un magnete attrae la limatura di ferro. Molti partivano, pochi tornavano. Così il reame dei morti poteva eternare le sue agghiaccianti leggende, e le sue conturbanti lusinghe. Osservando il pennuto svolazzare verso sud, il Veltro avvertì il sapore irrazionale del pericolo allegargli le gengive. Ma non ingannò se stesso con romanticismi da avventuriero: se accettava l'investitura era per il guiderdone. Il più generoso della sua prezzolata carriera. Un tocco più tardi stava già in arcione di Anemone, l'equipaggiamento assicurato alla sella. Non lasciò istruzioni ai domestici poiché si trattava di costrutti di ferro e di ottone, i cui meccanismi avrebbero seguitato a rispettare le consegne programmate senza bisogno di ingiunzioni. Gli artigli di Zolfo avrebbero tenuto alla larga sorci ed intrusi. Prima di sciogliere le briglie Veltro contemplò il vecchio mulino e l’acro di vigneto, che digradava in un’argenteria di olivi e di mirti a picco su una cala di onde color cedro. Contava di rientrare per la luna nuova, quando dall’uva si sarebbe spremuto il mosto del primo tuschero, e con abbastanza risparmi in tasca da dedicarsi per sempre alla viticoltura.
 
                                        La galoppata fu corroborante, al riparo del sottobosco fragrante tra dossi macchiettati d’armenti in transumanza. L'oceano cromava l'est, con la perseveranza degli esseri immortali.  Veltro moderò il trotto quando vide un pennacchio di fumo librarsi da un noceto ai bordi della mulattiera. Soldatino lo accolse con il rustico calore dello scudiero. "Quanta biada, stavolta?" "Più del solito, vecchio mio. Ho idea che non sarà un'escursione fuori porta ..." Veltro non aggiunse altro, e Soldatino non domandò oltre scortando la giumenta nel conforto delle stalle. Veltro si predispose ad entrare in città senza dare nell'occhio. Indossò un petaso frusto e si intabarrò in una cappa, sotto cui nascose la scarsella e la spada smontabile. Gli stivali impolverati erano abbastanza capienti da occultare ambedue le pistole. Veltro abbandonò la boscaglia, e si attardò sulla strada maestra che scendeva a Rosavena. I masti e le torri apparivano struggenti a quell’ora del meriggio, e i propugnacoli eburnei riflettevano le dorature cremisi del sole in declino. Le ombre dei contrafforti si allungavano come ali di corvo sul viandante, che affrettò il passo. Il crepuscolo urgeva.  Dagli spalti strapiombavano gli stendardi gigliati dell’Autoritas, e nelle bertesche lumeggiavano le lanterne e gli archibugi del corpo di guardia che si apparecchiava alla ronda notturna. Nessuno alla porta badò al tiratardi appiedato e male in arnese. Era l'ora in cui i signori si asserravano nei loro monumentali palazzi, e le arti e il volgo valutavano se passare la notte nel  talamo o nel giaciglio di qualche bordello. Il bagliore aranciato delle lumiere guidò Veltro al Cantinon de' Pazzi, una bettola congeniale alle sue esigenze: desco commestibile, biancheria di bucato e l'usanza a bruciarsi ognuno i propri pidocchi. L'indomani si alzò alla buon'ora, in tempo per presenziare all'apertura del Gran Tavolo dei Crediti e impegnare il primo addetto al banco. "Esatto, Voscenza. La scorsa ebdomada sono state accreditate duemila lune sul conto a voi intestato" confermò il compunto cambiavalute dai boccoli posticci. Veltro fischiò mentalmente. Per consuetudine, il contratto da sicario prevedeva il versamento anticipato di un quinto della taglia complessiva. Qualunque fossero le sue losche trame, il thanatolico faceva sul serio:  in Penumbria, una luna equivaleva al salario mensile di un tessitore ... Veltro prelevò il necessario per il viaggio, e traversò Rosavena da poco ridesta in direzione del porto. I Terzi fervevano. Erano i giorni che precedono l'Arpasto, e Piazza del Palio era deserta e intonsa come un santuario in attesa del catartico lavacro di sangue e ossa ammaccate. Veltro ammirò nell'olimpo del giorno il profilo di platino dell’Arengarium, la severa roccaforte in travertino dell'Autoritas addossata al cassero settentrionale. Sulla riva opposta dell'Orna si stagliava la trista bomboniera del Nefasterio, giudecca dei sediziosi e dei mestatori. Le mura invalicabili del carcere politico erano infradiciate dalle pitture infamanti dei fuoriusciti condannati in contumacia. La sua era stata abrasa molto tempo fa. Ponte dei Portici lo addentrò nel Terzo dei Mirabilia, dove fu accolto dallo stuporoso clamore delle magone e dei gabinetti degli inventori. Dagli antri che sbadigliavano sulle calli affollate filtrava il concerto stridente di mantici e sifoni che insufflavano vita automatica ai servomeccanismi cigolanti e alle dinamo ronzanti, alimentate dal propellente di fornaci sputafiamme. E ancora, nell'atanor prodigioso, colse il riflesso corrusco di specchiere semoventi e clessidre eteroclite sommerse dal brusio infernale di ectopici congegni di dischi  e sfere misteriosamente levitanti. Vitruviani umanoidi e zoomorfi si aggiravano tra quegli strambi meandri al tempo vagamente epilettico delle loro anatomie artificiali, mentre la calca era fesa dall'apparizione di grotteschi celeriferi e da trampolieri che stantuffavano su schinieri di molle sbuffanti. Alle porte di un edificio dai tratti barocchi una vasca a guscio di noce provvista di ali coriacee e un'enorme coda falcata tentava di sollevarsi dal suolo in dispregio alle leggi di gravità. "Più pressione in quei tubi!" esortava l'ingegnere all'assistente, un fantino paonazzo dai googles antipolvere intento a pedalare e a orientare il pesante manubrio a balestra. L’effigie sul frontone dello stabile, il compasso tra un'ombra di sole e una mezzaluna, rivelò al Veltro che si trattava dell'officina di ser Galileo Ottocingoli, scienziato, alchimista e vecchio socio d'armi e scorribande. Quel genio visionario e balordo alla fine aveva fatto strada! La sua barba filosofale e il mazzocchio a pois latitavano però dalla scena, così Veltro proseguì verso la darsena in cerca di un legno diretto a Port Tijaratur. I velieri traccheggiavano alla fonda. "I sciarebbe la Ruza Vietor, ma face tappa a Lampusia. Sta scialpando mò mò" disse in argot un portolano adusto come fegato essiccato. La buona stella arrideva al Veltro. A bordo c'era ancora posto per un passeggero senza cavalcatura, e Veltro contrattò col primo ufficiale per una cabina appartata. Le amache comuni dei bastimenti erano il posto ideale per buscarsi la scabbia o una pugnalata. La Ruza, un’agile cocca tuxiana a vele quadre, salpò con gli alisei in poppa. Navigò proficuamente per due giorni e una notte, compiendo un rapido scalo di cabotaggio in un porticciolo riparato, dove scaricò tessuti e imbarcò barili d'acqua e derrate. Come predetto dal segaligno alturiere la seconda sera il vasello ormeggiò nell’ampio golfo di Lampusia, l'ultimo atollo civilizzato del Magnum Vacuum che separava la Penumbria dal Continente dei Morti. Veltro snobbò i lupanari dei fondachi e pernottò in cabina, disturbato dal ciclico saettare del titanico faro di bronzo a forma di testa di gorgone che era il prisco emblema dell'isola. L'alba seguente la Ruza infornò un nuovo carico di avventurieri e mercatanti dall'aria quantomeno picaresca, e fece rotta a vele spiegate per Port Tijaratur. La navigazione durò tre giorni. Il Veltro trascorse la maggioranza del tempo sottocoperta, in cabina, a oliare i tamburi della Knaak e della monocolpo e ad affilare l'acciaio temperato della sua lama, Sentenza. Compariva sulla tolda solo quando albeggiava o al primo vespro, mentre il grosso della ciurma era nel focone a strozzarsi col rancio. Veltro inalava l’ossigeno salso, osservando le onde infrangersi aggressive sulla carena e morire in schiuma assorbita dagli ombrinali. Al di là dell'impavesata le mostruose profondità del mare, nero come  vino, serbavano enigmi insondabili. Proprio come il suo futuro.
 
                                        Port Tijaratur apparve al crepuscolo, simile a un relitto incagliato tra scogli aguzzi e vulcanici. La sua baia era punteggiata da faraglioni subdoli che resero ingrate le manovre di approdo. Sulle chiassose banchine il Veltro si mischiò guardingo e stupito ad uno sbalorditivo carosello di personaggi, accenti ed effluvi. I ghetti del porto erano una sentina cosmopolita e promiscua, la mecca di mercenari, bardi, stregoni, coribanti, pirati, bracconieri, parafiliaci, disertori e perseguitati di innumerabili contrade. Nel breve tragitto che lo instradava alle porte, Veltro si imbatté in ogni risma di vesti e ornamenti conosciuti: gilè sgargianti e farsetti di velluto, fusciacche variopinte e corazze ammaccate da mille mischie, morioni e turbanti bicorni, monili di corallo e orecchini di piume, bracciali artigliati e scudi dai blasoni scoloriti. Raccapezzarsi in un simile marasma era proibitivo, così  fu costretto ad assecondare le profferte di uno dei tanti imbonitori dai modi untuosi quanto il vaporoso caffettano. "Porto hascisc papavero anhalonium, Effendi! Bisca, forse? Donne, vergini, efebi? Subito!" Affatto impressionato dal compendio di corruzioni, Veltro menzionò il luogo dell'appuntamento con Tiamat Aurotene. L'espressione del lenone divenne mercuriale. "Il Berlicche Bislacco ... No, no, Effendi: sconsigliabile, senza invito"  Veltro gli sventolò il messaggio dallo strano simbolo sotto la lancia del naso. Come ad un segnale convenuto, il thanatolico accennò un inchino ed evocò ad aspra voce dalla turba un monello che non toccava sapone dal primo dente. "Una rupia per inizio e una per fine di trasporto" decretò ridanciano, invitando il Veltro a sistemarsi nel carrello di un decrepito risciò. Come filava tra le stanghe quel soldo di cacio, attrezzato di polpacci ipertrofici e piedi talmente callosi da ignorare il tappeto di lordure che foderava i vicoli di Port Tijaratur! La megalopoli era un dedalo di angiporti, bazar e presepi equivoci di mendicanti, baldracche e sciuscià. I suk, perlopiù in paglia e ciottoli cementati col fango, ostentavano scale esterne e finestrelle buie come orbite di teschi, sorreggendosi a vicenda come ubriachi all'uscita di un’osteria. Al centro delle strade correva un rigagnolo fetido di rumenta e liquami, e sui lati si aprivano scorci d'acque sudicie che si addentravano nel centro dell'abitato come vene reflue verso un cuore dissoluto. Dopo l'ennesima diramazione il carretto decelerò fino ad arrestarsi ai margini di una sordida agorà illuminata fiocamente. "Ecco la samarcanda!" additò brioso il giovinastro, convertendo il segnale nel palmo concavo che alloggiò la rupia pattuita. Lo scricchiolio delle ruote fu ingurgitato dalle latebre di vicoli invisibili. Malgrado la caldura tropicale Veltro si strinse nel mantello, e carezzando l'elsa di Sentenza guadò la piazzetta solitaria. Un cero cadaverico incorniciava un varco scevro di insegne. Da uno strato di tende filtrava un tenue fantasma di musica . Veltro quadrò il suo centro ed entrò.
                  Affrancata dai drappeggi, una risacca di suoni e di odori travolse i suoi sensi illanguiditi. L'interno era inaspettatamente vasto, organizzato in emicicli di divani fronteggiati da plinti  colmi di gradali e fruttiere. In mezzo alla pista un piccolo harem di baiadere dalle cavigliere d'osso ancheggiava voluttuosamente al ritmo sincopato dei nafil. Sebbene i soffusi bracieri relegassero gli avventori nella penombra, Veltro captò su di se il peso di sguardi sospettosi. Ostentando indifferenza, si mosse nell'aria affumicata dai narghilè. Scartò una tersicorea  troppo audace, che lo strisciò con uno sguardo licenzioso, ed entrato nel campo visivo dell'oste ne capitalizzò l'attenzione. Era un quintale di lardo massiccio nudo fino alla cintola, dalla complessione ginoide e la labbra lubrificate da qualche unguento. Fingeva di mescere dell'assenzio a due contrabbandieri barbuti e truci, ma non riusciva a schiodare gli occhi porcini dai suoi. "Cosa ti ha condotto così in basso, forestiero?" gli ammiccò porgendogli un cicchetto di liquore narcotico. Il Veltro passò. "Non sono qui per sbronzarmi. Devo incontrarmi con Tiamat Aurotene. Lo conosci?" L’eunuco scrollò le spalle glabre, stendendo il collo per ingollare l'intruglio rifiutato. "Mai sentito" ruttò. La pazienza del Veltro cominciava a scricchiolare. "Ehi, magari posso aiutarti!" chiocciò una voce al suo fianco. Veltro ruotò il capo fissando i due bevitori, che lo ricambiarono di un'occhiata poco amorevole. "Dicevo, se stai cercando Tiamat forse posso esserti utile" Veltro abbassò la visuale di mezzo busto, e notò un nanerottolo dalla trabea tigrata allargargli un sorriso accattivante dal periplo di barba artefatta. Portava un pince-nez di lenti ottagonali rutilanti che sfaccettavano l'espressione sconcertata del Veltro come un gioco di specchi distorcenti. "Io sono Grauser. Hai un invito, suppongo" Veltro annuì, mettendo mano alla tasca.  "Grandioso!" esclamò "Tu saresti il famigerato Veltro, il miglior spadaccino di Penumbria!" L’interpellato non controbatté all'ovvio. Grauser lo radiografò per un lungo istante dietro gli assurdi oculari. "Seguimi" gli ingiunse e prima che potesse ribattere lo gnomo aggirò il bancone su gambe valghe come zampe caprine, scomparendo in un passaggio guarnito da un sipario frusciante. "Rallenta, maremma!" smoccolò il Veltro rincorrendo Grauser nel pertugio. Si ritrovò in un androne buio attestato su un cavedio chiuso da mura fatiscenti, probabilmente il retro del Berlicche. Veltro avanzò di qualche passo, calciando inavvertitamente rivoli di immondizie. Lo sconosciuto interlocutore sembrava essersi fatto magicamente di nebbia. "Dove fava si è cacciato ..." mormorò Veltro, ma il disappunto gli morì in gola sopraffatto dall'atavico istinto di sopravvivenza. La morte, ossuta testarda, sfiorò il Veltro col calante di una scimitarra nera che recise l'aria dove un istante prima svettava la sua capa. Veltro uscì dalla schivata, sguainò la spada e vibrò una stoccata al plesso dell’ingombrante apparizione. La punta incontrò una resistenza imperforabile, e la lama non si spezzò solo in virtù della sua metallurgia d'avanguardia. L'assassino ruggì di rabbia. Respinse il Veltro con una stivalata e bilanciò le scapole per menare un micidiale fendente a due mani. Con l’agilità di una lonza  Veltro gli entrò nella guardia, e affondò due spanne di Sentenza nell'occhio sinistro. La scimitarra, di colpo insostenibile, rovinò tra i rifiuti, imitata dall'incauto possessore appena realizzò di essere morto. Ma in Thanatolia la tregua è merce rara, e una garrota avvinghiò senza preavviso la sua gola indifesa. Veltro perse la spada, mentre una volontà nerboruta lo costringeva in una chiazza d'ombra segandogli dolorosamente la trachea. Aveva pochi secondi prima che l'anossia usurpasse le sue facoltà di giudizio. Le pistole erano irraggiungibili, e una prova di forza con un maestro strangolatore era da stolti. Così il Veltro artigliò con il braccio la nuca incappucciata dell'uccisore, e con l'altro fece scattare la lama protrattile celata nella manica. Infierì alla cieca, deciso. Il gaglioffo allentò la morsa con un cachinno d'agonia, seguito da una dura gomitata nel costato. Veltro uscì dall'angolo. Si controllò il collo, pronto a recitare l'atto conclusivo. Lo strangolatore, sfregiato, emerse dal buio nell'uniforme di bende mimetiche. Brandiva un lungo kriss a foggia di biscia. Decaduto l'effetto sorpresa,  si avventò come un bufalo impazzito sulla vittima renitente. Veltro non attendeva altro. Si liberò della cappa con la fulmineità di un illusionista, irretì il nemico nel suo stesso impeto offensivo, e adescatolo tra le falde del mantello il Veltro invertì i ruoli. Con un passo di gagliarda si portò alle sue spalle e gli conficcò lo stiletto nei polmoni, più e più volte. Gorgogliando gli ultimi sputi di vita, il marrano tirò le cuoia. Veltro frugò tra le ombre predisponendosi al peggio ma il cortile appariva tranquillo, ora. Per prima recuperò Sentenza, assicurandosi che nessun graffio ne scalfisse la letale efficienza. Poi studiò le due salme, badando a non inquinarsi con l'icore che già ne allagava le forme afflosciate. Scostò i bendaggi che fasciavano le loro identità, e sotto la luce ossea della luna vide solo lineamenti levantini e insignificanti di colleghi malcapitati. Veltro non provò né colpa ne odio, almeno non per loro. In tre furiose falcate raggiunse l'uscita posteriore, sforbiciando il velario con la sciabola. La sua comparsa ammutolì i pifferi del Berlicche Bislacco. Viziosi e peripatetiche impietrirono le ugole e gli ombelichi mentre il Veltro scavalcò il bancone con un balzo tigresco e levò il filo sporco di sangue alla pappagorgia gelatinosa dell'oste esterrefatto. "Stura le orecchie, palla di merda!" sbraitò "Non ho fatto una settimana in una cabina muffosa per finire in qualche fossa comune... Adesso, o mi dici dove cazzo trovo Aurotene o la prossima cosa che berranno quei due lestrigoni sarà il tuo colesterolo!" Il bidone balbettò una frase che ricordava il pigolio di un pollo sul ceppo. Un sincero battimani si propagò nel silenzio alle sue spalle. Le pupille di ghiaccio del Veltro traslarono, inquadrando Grauser assiso sul raso zebrato di un triclinio. Una procace baiadera gli vezzeggiava la barba arzigogolata con le unghie smaltate di rubini. "Non mi divertivo così dall'ultima rissa di Malqvist!" Grauser congedò la mignotta con una strizzata al seno giunonico, e si issò sulle tozze gambe da nano. "Adesso seguimi, Veltro di Penumbria. E’ ora di fare sul serio"   
      

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